La tregua non dichiarata ma effettiva – che puntualmente accompagna nel Vicino oriente le elezioni presidenziali americane – a pochi giorni dalla loro conclusione è stata ancora una volta puntualmente rotta. Come su IlSussidiario.net ricordavamo lo scorso 6 ottobre, di lì a poco tra Israele e Palestina il conto alla rovescia sarebbe ricominciato. Senza ripetere qui cose già dette allora, ci limitiamo a sottolineare che nello spazio aperto da tale tregua l’Unione europea in generale e l’Italia in particolare avrebbero potuto giocare positivamente delle carte che purtroppo ancora una volta non hanno giocato. Soffermarsi oltre su questa irresponsabile assenza sarebbe ormai inutile, ma ignorarla sarebbe ingiusto. Auguriamoci malgrado tutto che al più presto sia a Bruxelles che a Roma qualcuno cominci finalmente a capire che quanto accade sulle rive del Mediterraneo ci riguarda non meno di quanto accade sulle rive del Reno.
Per rompere la tregua Benjamin Netanyahu non ha esitato a mirare molto in alto. Ha ordinato infatti come è noto l’uccisione a Gaza del comandante militare di Hamas, Ahmed Said Khalil al-Jabari. E l’ordine è stato efficacemente eseguito. E’ ovviamente immaginabile che prima di prendere tale decisione Netanyahu ne abbia valutati tutti i pro e contro, e tra questi ultimi anche le possibili reazioni del mondo arabo. E se ha deciso come ha deciso ciò significa che ha ritenuto che tali possibili reazioni sarebbero state sopportabili. Questo probabilmente è vero nell’immediato, ma poi si tratta di vedere se è altrettanto vero a lungo termine. Hamas non è più la realtà sostanzialmente isolata che era ai tempi dell’Egitto di Mubarak.
Oggi al Cairo governa Mursi che è comunque espressione della storia e della cultura dei Fratelli musulmani: una storia e una cultura in cui anche Hamas affonda le proprie radici. Non è un caso che Mursi abbia preso immediatamente due decisioni impensabili ai tempi di Mubarak: da un lato ha richiamato al Cairo il suo ambasciatore in Israele e convocato l’ambasciatore israeliano al Cairo per protestare con lui de visu, e dall’altro ha mandato in visita a Gaza il suo primo ministro Hisham Qandil, rendendo tra l’altro impossibili o comunque assai ardui (almeno per la durata di tale visita) ulteriori attacchi aerei israeliani su quel territorio.
Frattanto è ripreso il lancio di razzi “artigianali” da Gaza su Israele, uno dei quali ha colpito una casa facendo strage della famiglia che vi abitava, e un altro è giunto fino a Tel Aviv, dove è caduto in mare senza causare vittime ma suscitando comprensibile impressione. Finora infatti la grande città israeliana sembrava fuori della portata di tali razzi. Chi lancia questi razzi è nemico di Israele senza obiettivamente essere amico del popolo palestinese. Si tratta di armi che come si è visto possono anche causare dolore e morte ma non hanno alcuna importanza militare.
Viceversa finiscono per giustificare reazioni israeliane che inevitabilmente sono ben più estese e ben più cruente. Hamas nega di esserne responsabile, ma anche se ciò fosse sarebbe anche peggio. Sarebbe infatti segno che Hamas non riesce a controllare efficacemente il territorio di cui pur pretende di essere il dominus.
Al di là di questa cronaca di guerra – che con le sue alterne vicende dura da decenni e potrebbe durare ancorasine die, sempre lasciandosi dietro una scia di lacrime e di sangue da una parte e dall’altra – occorre però non cessare di domandarsi che cosa si potrebbe fare per dare davvero una svolta a questa situazione. La risposta non è facile, ma c’è. Si tratta di lasciarsi finalmente alle spalle una politica per il Vicino e Medio oriente sterilmente basata sugli equilibri militari e puntare invece su grandi progetti di sviluppo condiviso, grazie ai quali la pace diventi non solo auspicabile ma anche conveniente per tutte le parti in causa.