In principio era l’amicizia, nel cui grembo fiorì la più bella tra le storie d’amore possibili: quella tra Dio e l’uomo, intrecciate di cielo e terra, sposalizio di miseria con grandezza. Un’epopea amorosa il cui chiarore finì per scatenare il pandemonio di Satana, l’acerrimo nemico dell’amor cortese di Dio: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Deus caritas est). La beatitudine di un incontro: tutto il resto venne dopo. Un appuntamento che rimarrà pertinenza delle orecchie prima che delle mani, gesto d’accoglienza piuttosto che di manovalanza: “Ascolta, Israele” (Dt 6,4). D’allora, sempre a memorizzarsi la solita storia, quella scritta all’ombra delle piramidi: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es 20,2). I comandamenti faranno capolino di lì a poco: nasceranno anch’essi in un contesto d’amicizia. Appariranno, però, come risposta seconda ad un amore primo che li precede, la cagione del loro germogliare: “Dopo tutto quello che tu hai fatto per me, non potrò più vivere come prima. La memoria di te, Dio, ha scompigliato la mia storia”. Sarà risposta spontanea, non obbligata.
Di Padre in Figlio: come un giorno fece il Padre, così rifece un giorno il Figlio, nella più fedele delle successioni ereditarie. Gesù Nazareno non fu mai un predicatore di morale: al Cielo ciò che importa non è dire all’uomo dove debba stare o come debba muoversi. Piacere del Cielo è stare laddove l’uomo abita: per ricordargli, ovunque sia, che è ancora dentro lo sguardo di quell’amore primordiale.
La salvezza è, dunque, delle orecchie prima che delle mani, gesto d’ascolto prima che d’azione: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola (…) Chi non mi ama, non osserva le mie parole” (cfr Gv 14,23-29). Nemmeno il Figlio, come il Padre, mise come condizione prima l’osservanza dei comandamenti: vi lasciò l’ascolto della Parola come architrave della salvezza. La Parola è molto più dei comandamenti, come la fede è cosa molto più aperta della morale: non per nulla la morale è informazione seconda alla fede. Invertire le due parti — prima la morale e poi l’amore — è fare il gioco di Satana, il vecchio trucco che ancora abita certe sacrestie: “E’ volontà di Dio, non si muove foglia che Dio non voglia, non vorrai mica dare un dispiacere a Dio, vero?” Fino all’abbrutimento sommo dell’eleganza evangelica: “Rassegnati! Ci penserà Dio a punirti”. Per finire tra le braccia di Lucifero: “Se non preghi Dio non ti aiuta. Chiedigli subito scusa”. Catechesi sbiadite di chi s’è forse scordato che la Novella era prima di tutto buona d’avvertirsi, perché graziosa. Cioè piena di grazia, dalla cui radice nasce gratis. Che generò il gratuito da cui nacque Gesù, chiamato Cristo: la sorgente della Grazia. Tutto gratis, senza merito: basta la parola.
Darsi da fare per mostrare d’ascoltare è umano, ascoltare per agire è dis-umano: divino. Sarà roba da capogiro ricordarselo quando quella storia d’amore andrà in frantumi, quando Dio se ne starà zitto da sembrare pure indifferente. Sarà proprio allora che Dio rimetterà la faccia: “Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto“. Insegnerà a mettere in pace le due cose: prima l’ascolto, poi l’azione. Quaggiù la pace è assenza di guerra: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi“. Lassù è tenere intonato l’amore, anche in tempi di guerra, serbando memoria di dove è iniziata la nostra salvezza: “Lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio” (Dt 32,10). Il ricordo non è minaccia, è gesto d’accordo: “Ti do la parola”, dicono gli uomini-d’onore per firmare affari. Il primo fu Dio: amarlo è credergli. L’affare serio di quaggiù.