La parola magica di queste elezioni americane è “change”. Obama ha costruito la sua scalata alla Casa Bianca promettendo piazza pulita a Washington, nell’establishment, nel modo di fare politica e anche nelle scelte del governo. Pur se con toni più sobri e meno pomposi, anche John McCain si presenta come il candidato del cambiamento. Del “change” rispetto agli sprechi del governo federale e alle politiche fallimentari sul fronte interno dell’Amministrazione Bush, dal disastro di Katrina alle mancate riforme, come quella delle pensioni. Cambiamento è un termine spesso abusato nelle campagne elettorali. Ronald Reagan voleva “cambiare” l’America timida di Jimmy Carter nei confronti dell’Urss: Walter Mondale nel 1984 voleva “cambiare” lo stile di governare di Reagan, per citare solo due esempi. Il 4 novembre oltre 110 milioni di statunitensi sceglieranno un candidato che promette di voltare pagina. Guarderanno al carisma, ma anche al profilo, al background politico.
La biografia del senatore afroamericano è il più fulgido esempio di come lui stesso incarni la novità. Ma un conto è incarnare un’idea nuova, un altro avere le capacità di portare a compimento quella che con un certo ottimismo i democratici chiamano una rivoluzione a Washington. Il simbolo del cambiamento di direzione è per gli statunitensi (fronte democratico) la copertura sanitaria universale. Oggi 47 milioni di cittadini non hanno un’assicurazione medica. Nel 1993, il piano dell’allora first lady Hillary Clinton si schiantò contro il muro repubblicano. Oggi, benché il clima sia mutato, l’America non è nella condizione economica (il surplus di bilancio del 2000 è un ricordo) per mettersi sulle spalle una riforma radicale. Obama parla di cambiamento, ma finora non è stato per nulla chiaro su quali programmi fiscali inutili vorrebbe tagliare; ha detto di voler mantenere il budget del Pentagono più o meno sui livelli attuali anche se cambiando in parte la destinazione dei soldi. Anche quello che a molti potrebbe sembrare un elemento di novità, un ampliamento del ruolo del governo come soggetto regolatore dell’economia Usa (seppur sempre su livelli non paragonabili al liberismo fasullo di casa nostra), è in realtà una ricetta scaduta. Se il governo assorbisse i debiti di banche e consumatori, rilanciasse il mercato immobiliare e investisse in infrastrutture per creare anche posti di lavoro, potrebbe dare una boccata d’ossigeno all’economia Usa. Ma molti economisti si domandano se questa strada non sia miope, e soprattutto non porti svantaggi in futuro.
Anche i repubblicani parlano di cambiamento. Il Gop è per tradizione il partito delle idee, quello dall’”ideologia” più precisa, meno confusa e fortemente radicata nella base. John McCain rispetto a questa base rappresenta quasi un elemento irrazionale. Come ha spiegato Matthew Dowd, stratega di Bush nel 2004, la vera sfida di McCain è quella di rafforzare il suo brand di riformatore, di uomo del cambiamento possibile piuttosto che appoggiarsi all’immagine, parecchio appannata, del Gop. John McCain è tutto fuorché un “rivoluzionario”. È un pragmatico, talvolta imprevedibile, con un record alle spalle di scelte spesso impopolari ma innovative. Chi avrebbe scommesso sul successo in Iraq del surge, l’aumento di soldati? Solo McCain nel 2006 parlò a favore dell’aumento delle truppe Usa. Il senatore dell’Arizona in tre decenni di carriera non ha mai chiesto earmark (i soldi fuori bilancio che finanziano progetti di interesse specifico nei distretti elettorali), e da presidente promette di eliminare la pratica del pork-barrell. Ha messo la sua firma e la faccia sulla riforma dell’immigrazione (abortita, ma non nel cassetto). Certo, malgrado predichi la distanza da Bush, la sua visione in politica estera ed economica (leggi tagli alle tasse), è non così dissimile dal corso dell’Amministrazione in carica. Ma McCain, come ha riconosciuto anche Bill Clinton a Denver in una dichiarazione passata sottotraccia ma che ha scosso l’ambiente democratico, è l’uomo che più di tutti può realizzare progetti e programmi. Se il cambiamento è un ideale, Obama non ha rivali; se è un misurabile, allora l’America sceglierà John McCain.