È tornato recentemente alla ribalta il tema delle convivenza tra cittadini e immigrati. Qual è a Suo parere il punto centrale della questione?
Letizia Moratti Secondo il Rapporto pubblicato in occasione della XXXIX sessione della Commissione dell’Onu sulla Popolazione e lo sviluppo, l’Italia è collocata al sedicesimo posto tra le nazioni con il più alto numero di immigrati, pur non figurando fra i primi venti Paesi nei dati Onu precedentemente disponibili.
Sul fronte dell’immigrazione clandestina, il Governo Berlusconi, con una serie di politiche di contrasto e di prevenzione, aveva praticamente chiuso le porte alla clandestinità: dal 10 agosto 2002 fino ad agosto 2006 non c’è stato sbarco clandestino sulle coste del nostro Paese. La scelta politica, anche attraverso la legge Bossi-Fini, è stata quella di: collaborare con i Paesi d’origine (come Turchia, Egitto, Sri Lanka) o di transito degli immigrati per avviare un binario parallelo tra la repressione e l’integrazione; usare un maggior rigore nei confronti dei trafficanti di uomini; varare una grande regolarizzazione degli irregolari con la richiesta che il datore di lavoro certificasse il rapporto di lavoro reale, formalizzato in un contratto con salario regolare, regolarizzazione contributiva, assistenza sanitaria.
Il bilancio del quinquennio ha visto quindi raddoppiare, grazie a queste politiche, la presenza di immigrati regolari da 1,5 milioni circa ai 2,7 attuali. Un raddoppio avvenuto non solo grazie alla regolarizzazione, che ha interessato solo 650.000 stranieri: gli altri sono entrati in Italia in modo regolare al ritmo di poco meno di 200.000 all’anno. Questo patrimonio di esperienze, di normative e di buona pratica è stato purtroppo scardinato dal governo in carica, prima con l’ampliamento arbitrario del Decreto flussi del 2006 e poi con le indicazioni del Disegno di legge Ferrero-Amato.
Questa tendenza negativa colpisce un principio fondamentale: è necessario accogliere gli immigrati, che rappresentano una risorsa per il Paese, aumentando il dialogo, lo scambio culturale e l’integrazione, ricordandosi però che c’è bisogno di controllare il fenomeno di massa di quanti arrivano nel nostro Paese illegalmente e spesso finiscono con l’alimentare il circuito del traffico di droga, di prostituzione e della criminalità diffusa.
Walter Veltroni Viviamo in un mondo in cui molte cose sono più semplici rispetto al passato: viaggiare, conoscere, imparare, acquistare. C’è però un paradosso di fondo: il rischio, per effetto del clima di contrapposizioni ideologiche, culturali ed etniche, di un mondo in cui le zone di conoscenza reciproca diminuiscono. È il paradosso della globalizzazione che, se da un lato apre le porte, riduce i tempi e accorcia le distanze, dall’altro vede una sempre maggiore chiusura di sé stessi all’interno di una dimensione identitaria. Una contraddizione che bisogna eliminare, perché crea un “corto circuito” pericoloso, che porta inevitabilmente allo scontro. In questo contesto occorre aprire la nostra società all’altro, creare un clima di confronto e di dialogo, accettare le contaminazioni che nascono dalla curiosità degli uni per gli altri. Sapere che non ci sono culture superiori alle altre, essere consapevoli della propria parzialità, è la consapevolezza della propria forza, la condizione migliore con cui guardare all’altro.
È però essenziale il rispetto dei doveri che ogni cittadino ha nei confronti della città in cui vive. Questo è un principio che tutti sono chiamati a rispettare. In particolare, in una città come Roma, caratterizzata dalla presenza di molte etnie, ognuna delle quali portatrice di valori, culture e tradizioni diverse, il rispetto dell’altro è fondamentale per una convivenza basata sul dialogo e sull’integrazione. In questo discorso rientra anche il rispetto della legalità, perché non c’è nessuna condizione sociale che possa giustificare che si agisca contro le leggi di uno Stato. I comportamenti illegali vanno combattuti con determinazione, ma solo se c’è voglia di accogliere si può chiedere il rispetto delle regole, altrimenti il rischio è che accada di negativo ciò che è avvenuto in altre capitali europee. Roma è una città aperta, che accoglie e include, ma al tempo stesso chiede che siano rispettate le regole di convivenza civile: questo, lo ripeto, è un principio che deve valere per tutti, immigrati e cittadini.
Tuttavia, devo dire che nella nostra città il tema della convivenza tra cittadini italiani e immigrati non ha mai assunto quei toni esasperati che spesso, purtroppo, hanno caratterizzato le esperienze di altre metropoli. Qualche problema c’è, come accade in tutte le grandi città che si trovano ad accogliere migliaia di persone ognuna delle quali portatrici di culture e abitudini diverse, e si cerca di risolverlo giorno dopo giorno.
Quali sono gli strumenti più efficaci per consentire una pacifica convivenza tra diverse tradizioni e culture? Sotto questo profilo, quali sono i compiti principali delle istituzioni, in particolare dell’amministrazione comunale?
Moratti È necessario coniugare sicurezza e accoglienza, rispetto delle regole e solidarietà. L’accoglienza rispetta l’individuo e si differenzia dalla mera assistenza che prende invece la forma di distribuzione uniforme di aiuti, senza un autentico e regolare controllo e il recupero della persona, che conduce a una sorta di assuefazione abitudinaria. Il nostro senso di accoglienza è quello di dare a ciascuno la possibilità di realizzare nella nostra città i propri progetti di vita. L’assistenzialismo, al contrario, scoraggia coloro che lavorano e mantiene in inattività quelli che sono in difficoltà. Gli immigrati regolari vanno aiutati e fatti vivere in condizioni dignitose, garantite da risorse economiche sufficienti per vivere e per dare il loro contributo alla crescita della comunità. Il Comune di Milano ha messo al primo posto l’aiuto agli immigrati per trovare lavoro, perché il lavoro è integrazione, ma è anche garanzia di sicurezza: sicurezza per tutti i cittadini, poiché lavoro significa benessere diffuso, libertà dal bisogno, maggiore vivibilità, coesione sociale e un terreno meno fertile per l’insorgere e il proliferare della delinquenza.
A Milano stiamo svolgendo un lavoro importante attraverso il Celav, il Centro per il lavoro dell’assessorato alle Politiche sociali del Comune, per l’inserimento lavorativo di persone appartenenti a fasce svantaggiate, con uno sportello aperto tutti i giorni, un servizio di orientamento al lavoro, la possibilità di svolgere un tirocinio nelle aziende del territorio. Solo alcune cifre: nell’ultimo anno 2.300 persone si sono rivolte allo sportello, molti erano immigrati, 800 sono state segnalate dai servizi sociali e sanitari del territorio, 850 hanno beneficiato delle nostre Borse lavoro, 350 sono state assunte.
Le politiche sociali di integrazione del Comune sono una realtà da coniugare sempre con la sicurezza; si è dato vita perciò a una serie di iniziative per concretizzare questo obiettivo, scegliendo un percorso di dialogo e di collaborazione tra le istituzioni che governano il territorio. Il Tavolo per Milano con il governo Prodi, e prima ancora il Comitato per la sicurezza, sono luoghi dove questa collaborazione si attua, dà forma e indirizzi all’azione di ciascuna istituzione, producendo risultati visibili. Inoltre, il Comune di Milano ha sollecitato e ottenuto dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato, un preciso impegno su:
– definizione di patti per la sicurezza con ogni Città metropolitana che prevedono, da parte di tutti i contraenti, risorse finanziarie e organizzative adeguate;
– avvio di un gruppo di lavoro che definisca innovazioni legislative e normative in grado di fornire nuovi strumenti per contrastare nelle città i fenomeni di disagio e degrado.
Il governo ha avanzato la proposta di attribuire ai Comuni l’organizzazione degli sportelli per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno. Mi pare importante sottolineare che i Comuni non possono essere costretti a dare valutazioni sul profilo di sicurezza degli stranieri che entrano in Italia, in quanto non rientra nelle loro competenze. Credo che si debba riprendere il modulo sperimentato positivamente con la legge Bossi-Fini, utilizzando gli sportelli postali e mettendo in rete i collegamenti con tutti gli uffici interessati, cominciando dalle Questure, i primi uffici delegati a effettuare i dovuti controlli.
Veltroni Accoglienza e rispetto rigoroso dei diritti di tutti: una cosa non sarebbe possibile senza l’altra, e perché questo avvenga è necessario il contributo di tutti. Un ruolo importante è giocato proprio dalle istituzioni, che devono creare le condizioni, un clima, affinché integrazione e inclusione sociale non siano solo belle parole, slogan politici che però non trovano un riscontro pratico nella vita di tutti i giorni. Non avrebbe senso parlare di «comunità» senza creare spazi e momenti ai quali tutti, stranieri e non, possano accedere, e non avrebbe nemmeno senso parlare di «diritti» se non viene garantito a tutti il rispetto delle proprie tradizioni, culture e leggi.
Ciò avviene anche creando occasioni e momenti di integrazione sociale. Un esempio per tutti è l’Associazione Baobab: nata per accogliere le persone sgomberate da quello che veniva impropriamente definito “Hotel Africa”, è diventata una struttura in parte gestita autonomamente da questi stessi ragazzi, tutti nordafricani, che ne hanno fatto un punto di ritrovo per tutto il quartiere. La struttura è fornita di oltre duecento posti letto, ma c’è anche una palestra, una sala per il cinema, per la musica, per la lettura. C’è persino un ristorante dove vengono preparati cibi tipici e si organizzano spettacoli, aperti a tutta la città.
Secondo Lei è preferibile un modello urbanistico che preveda la concentrazione degli immigrati in quartieri precisi o uno che tenda invece a distribuirli in tutta la città?
Moratti Il Comune di Milano ha adottato un metodo condiviso, una programmazione di interventi che si inseriscono e trovano il loro significato in una cornice di costante miglioramento delle condizioni di vivibilità in ogni luogo della città, in particolare nelle aree investite dai flussi migratori.
Grazie al lavoro congiunto con le altre istituzioni e le forze del “privato sociale” e attraverso il lavoro del Comitato per la sicurezza, sono state individuate soluzioni adeguate per la riqualificazione complessiva dell’area di via Triboniano, zona della città particolarmente degradata per la presenza di campi rom illegali.
In quest’area, dai primi giorni di gennaio 2007, è partita un’azione che ha visto collaborare le istituzioni, le forze dell’ordine, la protezione civile e i vigili del fuoco, assieme al volontariato e ai rappresentanti dei residenti. Un lavoro che ha portato ad adottare il Patto per la legalità e la socialità sottoscritto dai capifamiglia dei nomadi, che si sono così impegnati al rispetto di alcune regole fondamentali per la convivenza civile. Tra queste, l’impegno di mandare i bambini a scuola, di seguire percorsi di formazione professionale e d’inserimento lavorativo, il rispetto delle leggi italiane e l’assicurazione di non coinvolgere i minori nell’accattonaggio.
I risultati evidenti raggiunti a Triboniano confermano la bontà di un vero e proprio modello sperimentale, unico nel nostro Paese, da adottare in altre situazioni, grazie alla collaborazione e agli interventi qualificati che a Milano il mondo del privato sociale e del volontariato sono già in grado di compiere con le istituzioni.
Veltroni “Costruire ponti, non muri”. Questa frase, pronunciata da un grande papa come Giovanni Paolo II, rappresenta forse meglio di ogni altra lo spirito di una città che ogni giorno riesce a essere metropoli e, al tempo stesso, comunità. Perché se c’è un effetto positivo provocato dalla globalizzazione è stato proprio l’aver ridotto le distanze e l’aver reso possibile ciò che, neanche troppo tempo fa, non lo era. Qualche decennio fa era impensabile che una stessa scuola potesse essere frequentata da bambini cinesi, dell’Est europeo, africani, indiani. Oggi è un dato di fatto. A Roma ci sono bambini di 157 nazionalità diverse: è una grande opportunità e, al tempo stesso, una ricchezza che bisogna saper custodire e valorizzare.
Qual è il Suo pensiero sulla necessità di accorciare i tempi per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli immigrati e di concedere loro il diritto di voto alle elezioni amministrative?
Moratti Mi pare ci sia una fretta eccessiva di cambiare tutto quanto è stato attuato dal precedente governo, senza tenere conto degli effetti positivi in corso. In particolare, sono preoccupata da alcune proposte che, se trasformate in legge, potrebbero aprire delle falle nelle liste d’ingresso degli immigrati, con conseguenze critiche per i territori, in particolare quelli delle grandi aree urbane: la responsabilità dell’iscrizione nelle liste d’ingresso e della loro tenuta, prevista “per convenzione” tra lo Stato italiano e una pluralità di soggetti nazionali e internazionali, mi pare non consentire di fatto un controllo rigoroso; a differenza di quanto previsto dalla Bossi-Fini, ma soprattutto del sistema che si è venuto formando in sede europea, con queste proposte viene meno il collegamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro: ciò equivale a dire che il lavoro l’immigrato dovrebbe cercarlo una volta entrato in Italia. C’è il rischio che, facendo entrare chi non ha lavoro, lo si spinga verso il sommerso o la criminalità, perché è difficile immaginare con quali fondi pubblici si possano sostenere gli immigrati senza lavoro.
L’introduzione dell’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore “dei titolari del permesso di soggiorno della Comunità europea e dei soggiornanti di lungo periodo”, come si legge nella proposta, va esaminata con grande attenzione. Bisogna evitare ogni tipo di strumentalizzazione politica e puntare non solo su elementi di tempo e di luogo, ma anche su un’effettiva adesione ai principi e ai valori che sono il patrimonio fondante del nostro Paese.