Giudici islamici possono sentenziare in Inghilterra secondo la sharia. Questa è la notizia diffusasi da poco tempo, ma a quanto pare relativa a una pratica già in corso dal 2007. Secondo l’Arbitration Act, infatti, si può attribuire agli arbitrati valore legale se entrambe le parti di una disputa attribuiscono al giudice il potere di emanare una sentenza nel loro caso. In base a questa norma il giudizio di una corte islamica risulta valido a tutti gli effetti. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, spiega di che cosa si tratta
Professor Parsi, qual è la portata di un simile provvedimento?
Da quello che so io il provvedimento inglese recepisce sentenze di tribunali islamici per quel che riguarda il diritto di famiglia nelle relazioni tra musulmani come un matrimonio oppure questioni di eredità. Quindi è una normativa collocata nell’ambito degli “arbitrati”. Se due persone vorranno essere sottoposte a un arbitrato in base a queste norme, e se le norme non contravvengono ai diritti fondamentali sanciti da quella che si può definire impropriamente “la costituzione di Inghilterra”, saranno libere di procedere in tal modo. Questo è il senso di quanto hanno deciso gli inglesi. Non hanno certamente stabilito che la sharia vale quanto la Magna Charta. L’arbitrato fra le questioni private come il matrimonio può essere raggiunto anche se stabilito da un tribunale islamico che in questo caso è equiparato a una corte arbitrale a tutti gli effetti.
Si può dire che questa concessione è legata al fatto che i cittadini musulmani concepiscono il diritto come connaturato alla religione?
Questo può darsi, anzi in un certo qual senso è proprio così.
Già definire una legge “islamica” vuol dire entrare in una dimensione religiosa. Occorre anche precisare che in Inghilterra esiste un sistema di common law che per alcuni aspetti è ancora più stratificato di quello vigente negli Stati Uniti o nel Canada. In poche parole il concetto è: se esiste una cospicua parte di cittadini britannici che sono appartenenti al credo musulmano, tutto quello che possiamo realizzare giuridicamente per integrare nella nostra società quella comunità è da farsi. Per il sistema giuridico italiano questa operazione sarebbe impensabile perché implicherebbe una complicazione enorme.
Qual è l’impatto che un tale modo di procedere potrebbe avere a livello di diritto europeo?
Il sistema continentale, il cosiddetto Civil Law, è sicuramente più rigido da questo punto di vista. Quanto detto per l’Italia vale più o meno per tutto il continente. Noi europei continentali abbiamo un sistema di fonti gerarchiche in cui la legge emana dei codici relativi che non si rintracciano nel tessuto sociale e, soprattutto, nei quali il matrimonio non è principalmente inteso come un contratto. Per poter giungere a trattare il matrimonio come un arbitrato occorre partire dal principio che il matrimonio è sostanzialmente un contratto fra due adulti consenzienti, e poi definire i contenuti di tale contratto.
Il paradosso è che in nome di una visione molto secolare dell’istituto matrimoniale, come quella che si ha nel Common Law, si è in grado di immettere come possibile fonte di regolamentazione interna dei rapporti, una legge religiosa. Quindi la religione in questo caso c’entra, ma se rientra nel diritto lo può fare perché la sua rilevanza religiosa è fondamentalmente derubricata al massimo livello, totalmente svilita nella sostanza.
Il problema di una giusta integrazione rimane di forte attualità. Purtroppo questo è spesso collegato a gravi fatti, come quello recentemente avvenuto a Milano dove un cittadino italiano di colore è stato ucciso a sprangate. Come vede l’evolversi della situazione da noi?
So ancora molto poco sui fatti e sull’innesco della dinamica. Qualunque cosa avesse fatto il ragazzo che è morto sicuramente non giustificava il suo omicidio. C’è un problema generale di integrazione nella società italiana, questo è vero, ma non riguarda solo la nostra nazione. La presenza di persone che appartengono a culture che vengono classificate come troppo “diverse” provoca inevitabilmente uno stress nei meccanismi di integrazione. Ma c’è un secondo elemento. E questo è relativo non soltanto alla questione della sicurezza, che è stata tirata in ballo forse un po’ troppo, bensì alla diffusa sensazione di impunità. Il problema è che ci sono violazioni di norme che di fatto non producono sanzioni.
Ad esempio qualche giorno fa un signore di sessant’anni ubriaco, guidando un’auto di lusso, ha investito una vigilessa che cercava di bloccarlo. È stato inseguito e arrestato in flagranza di reato, ma il magistrato l’ha rimesso subito in libertà e non ha convalidato l’arresto.
Quando la società percepisce, non l’insicurezza, ma il fatto che le norme non vengono applicate col necessario rigore, possono scattare reazioni come quella avuta dal padre e dal figlio che hanno ucciso quel ragazzo di colore. Sono fenomeni che possono avere per soggetto persone di qualunque tipo. Non c’è dubbio che se a livello di opinione pubblica si ritiene che alcune persone sono più facilmente sensibili a un certo tipo di comportamento criminoso può scattare una motivazione in più.
Ma il punto è che le sanzioni devono essere applicate con una serietà maggiore di quanto avviene. Questo è un criterio che non fa distinzioni di culture o discriminazioni, dev’essere valido per tutti.
Esistono a suo avviso delle buone prassi, dei processi virtuosi ai quali rifarsi per ottenere un’efficiente integrazione?
Questo provvedimento preso in Inghilterra è, tutto sommato, un’azione di buon senso.
È pacificamente accettato dal sistema legislativo, dalla mentalità, da un tipo di cultura politica che è molto meno astratta e teorica della nostra. In Inghilterra non si parla di “destra” o di “sinistra” in questi casi, ma di risolvere un problema che si fa urgente.
In generale vedo che chi si è posto il problema dell’integrazione prima di noi italiani, anche per questioni storiche oggettive, ossia inglesi, francesi e olandesi, ha avuto modo di costruire un modello e si è dato da fare. L’impressione è che in Italia ci si muova con la solita confusione dettata dall’astrattezza dei principi che, d’altra parte, faticano a trovare un’applicazione autentica. Occorrerebbe ispirarsi dunque a quei modelli virtuosi che caratterizzano i Paesi che prima di noi hanno avuto a che fare con l’immigrazione e con problemi di integrazione.