Il rapporto Murphy, come il precedente rapporto Ryan (i due rapporti governativi sugli abusi di minori nella Diocesi di Dublino e negli istituti gestiti dalla Chiesa cattolica, ndr), hanno raccontato cose di cui già sapevamo non poco dalle pubbliche testimonianze di chi aveva avuto la propria innocenza infantile distrutta da persone che portavano un’uniforme che diceva “Cristo”.
Di fronte a questa drammatica situazione la Chiesa deve affrontare in modo diretto e deciso tutte le questioni che si pongono, o rassegnarsi a una deriva che non potrà che portare al fallimento. Non si tratta di ricercare procedure che possano proteggere i ragazzi, o di una riorganizzazione della struttura ecclesiastica ed episcopale, bensì di chiedersi quanto l’insegnamento della Chiesa abbia rispettato la stessa proposta cristiana. E la verifica deve essere completa.
La crisi non è iniziata o diventata visibile con il rapporto Murphy, che ha descritto più i sintomi che il problema di fondo. La vera crisi non è istituzionale, ma è nel cuore stesso del cristianesimo irlandese, e non la si chiuderà con dimissioni e scuse pubbliche.
Il fatto che questi scandali siano connessi a distorti istinti sessuali di uomini cresciuti nella tradizione cattolica irlandese non è accidentale, ed è difficile controbattere a chi fa risalire quanto avvenuto a una avversione per la sessualità, che sembra aver condizionato tanta parte dell’insegnamento della Chiesa irlandese nell’ultimo secolo.
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Si potrebbe forse dire che l’elemento centrale della cultura religiosa irlandese ruoti attorno al sesto comandamento che, in una sua estesa interpretazione, è stato applicato a ogni manifestazione della sessualità umana. L’ossessione per questo comandamento può ben aver portato alla perversione e alla corruzione descritti nei citati rapporti.
I cattolici irlandesi di una certa età sono cresciuti con il senso di una ossessione collettiva nei confronti dei peccati della carne, con la esclusione praticamente di ogni altro tipo di peccato, e con un’enfasi in materia che è completamente separata da una visione globale del desiderio umano. Il rifiuto traumatizzante della natura umana potrebbe essere tra le molte dannose conseguenze, con il risultato quasi inevitabile di una rivolta della natura umana, nei modi più innaturali e mostruosi.
Il cattolicesimo irlandese deve affrontare il problema a partire da ciò che questa disturbata teologia ha rimosso. Al centro della crisi del cristianesimo irlandese non c’è il sesto comandamento, bensì il primo. Perché ciò che questa pervertita teologia ha rimosso è Cristo, diventando una forma di idolatria, che venera il moralismo della continenza sessuale mentre riduce Cristo a un’icona sentimentale, presente o assente a seconda dei comportamenti.
Il problema più serio e più al fondo è che i cattolici irlandesi sono diventati dei credenti che non credono, definiti meramente da un programma morale e da un’identità tribale. Si è parlato di Gesù così da non suggerire una presenza viva, ma un leader morto, come Marx o Lenin. Le parole dette su Cristo e sul Suo significato hanno spinto a comportamenti e atteggiamenti pii, ma non hanno proposto, e non propongono, il credere sicuro in Qualcuno capace di salvare e redimere la condizione umana.
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Questo è il problema reale sottostante a quanto emerso nei rapporti dei giudici sugli abusi di minori, un problema culturale profondo che va dritto al significato stesso del cristianesimo. Ciò che è mancato non è l’intensità della fede, ma la coscienza della realtà umana, che Cristo non è un’icona della pietà popolare fondata su un necessario moralismo o una sana tradizione, ma un uomo vivo, che è qui adesso e la cui presenza definisce ogni cosa.
La storia del cattolicesimo irlandese moderno è, quindi, la storia del moralismo come idolatria, di un cristianesimo senza Cristo. Ci è stato offerto un moralismo “Cristiano” senza nessuna coscienza di dove esso si radicasse: questo è il gorgo in cui ci troviamo e se la gerarchia non affronta la questione, il futuro della Chiesa irlandese sarà molto cupo.
Nascondere la questione sotto gli aspetti politici delle dimissioni o delle riorganizzazioni finisce per sottolineare l’ampiezza del problema e per mettere in luce l’incapacità della Chiesa irlandese di capire la vera natura della sua crisi. La possibilità che si presenta è che l’Irlanda sia stata a lungo un Paese cattolico, ma non realmente cristiano. Se fosse così, non dovrebbe sorprendere che uomini educati a diventare preti in una simile cultura non abbiano goduto di alcuna salvaguardia dal male.
I fatti descritti nei rapporti hanno diffuso il forte dubbio che la preoccupazione della Chiesa irlandese non sia mai stata adempiere alla Parola di Gesù Cristo. Il recupero su questo punto dovrà essere guadagnato partendo da una situazione di vergogna e di dolore. Siamo arrivati a un punto da cui possiamo solo ricominciare da capo, proprio dall’inizio, come se il corpo di San Patrizio fosse stato appena affidato alla terra.