Fu un boato lungo che pareva interminabile. Ti svegli all’improvviso alle 3:30 di notte, anche mia figlia che alla mattina quando deve andare a scuola aspetta l’ultimo secondo per alzarsi. Attimi di paura e la mia mente è subito corsa all’Aquila dove lavoro, dove dal dicembre scorso si convive con continue scosse di terremoto più o meno forti, che lasciavano presagire la botta forte. Tanto è stato; tempo di infilarmi una maglia ed ero in autostrada per correre al lavoro.
In viaggio il pensiero ai colleghi: i telefonini sono isolati ed è impossibile contattarli. La prima che mi chiama è Angela che tra panico e lacrime mi racconta della sua casa che non c’è più, del desiderio di raggiungere la madre, di scoprire se è ancora viva in un paesino sotto il Gran Sasso.
L’autostrada dopo di me è chiusa al traffico, un viadotto è lesionato. Al diavolo il mestiere del giornalista, sono le persone il primo pensiero, la cronaca arriverà dopo.
Cerco di sentire tutti, ma tutti è impossibile. A L’Aquila l’apocalisse, il centro storico si presenta come quella città bombardata che si è soliti vedere di sfuggita nei telegiornali, mentre si parla e si pensa ad altro. Invece il dramma qui è di ciascuno, la solidarietà verso tutti. L’emozione è forte quando vedo nel buio della notte un padre scavare a mani nude tra le macerie. Urla “Benedetta”, il nome di sua figlia, un’invocazione. Benedetta è persa tra le macerie e ripenso ai miei figli e lì capisco che proprio miei non sono fino in fondo: c’è un destino, a volte amaro per ciascuno di noi. Mi emoziono e sento il bisogno di pregare per i miei, per le persone a cui voglio bene. Al diavolo il mestiere del giornalista, ma bisogna ricominciare a raccogliere notizie quasi cinicamente, perché alla fine bisogna scrivere i numeri, le statistiche.
È bello scrivere qui ciò che su un foglio di carta non potrete leggere mai: il mio essere uomo in mezzo alla gente, per strada. Tanti sono in pigiama col freddo della notte e arrivano i primi dati drammatici: è crollata la Casa dello studente e molti sono i dispersi, i pianti, la disperazione degli amici, le richieste di interventi. Giro a caso la città, la mia redazione non è più tale, si lavorerà chiusi in macchina senza corrente, con i telefonini che presto sono scarichi. È crollata la Prefettura, tante chiese con le volte distrutte e in Piazza Duomo anche la chiesa della Anime Sante, dove all’interno non c’è più nulla, neanche la statua di Sant’Emidio, protettore dei terremoti, che si dice sia passato di qui durante la sua vita. Dentro quella chiesa, ricordo la messa della scorsa settimana voluta dal Vescovo, mons. Giuseppe Molinari: l’ha officiata per invocare la protezione del Santo.
Case sventrate, l’attenzione si ferma lungo via XX settembre, una delle zone più colpite, davanti a un collegio di suore. Non c’è la parete esterna, dentro si vede un piccolo altare e sopra la statua della Madonna. È in piedi, oltre il terremoto. Scatto una foto con il cellulare e mi trovo ancora una volta di fronte a Dio. Più forte del mio lavoro, più pesante di tante altre volte: sono in questi momenti che scopri la tua debolezza, la tua impotenza. Troppo facile, si potrebbe dire, affidarsi a Cristo in questi momenti. Non è così, è reale affidarsi a Cristo in questi momenti, affidare le persone più belle. Lacrime e disperazione, ma anche tanta solidarietà. Persone in pigiama che si offrivano a chi aveva bisogno per scavare, ma anche per una sola parola di conforto.
Al diavolo il mestiere di giornalista. Ti chiamano tutti quando sanno che sei sul posto: La7, Studio Aperto, Radio 24, la diretta con il Tg4, poi anche ilsussidiario.net, ma in questo caso mi sono sentito me stesso: tirare fuori quanto accumulato in queste ore, ritrovare me stesso verso l’infinito dopo tanto tempo passato ad osservare quello che stava succedendo, un guardarmi dentro che ha messo a fuoco la fragilità del mondo intorno.
Si torna al mestiere, si corre alla conferenza stampa. Ci sono proprio tutti, da Berlusconi accompagnato dai ministri Maroni e Matteoli, a Bertolaso. Poi il presidente della Regione, quello del Provincia, il sindaco. Si tirano i primi bilanci, si descrivono gli interventi, si esalta la capacità delle istituzioni nel pronto intervento, si promettono i soldi. La gente pensa alla prossima notte da passare in una tendopoli, oppure in auto, o in uno dei tanti alberghi messi a disposizione sulla costa abruzzese, lontano dal terremoto.
La giornata scorre via veloce, non vedo l’ora di tornare a casa a riguardare il volto dei miei figli e penso al mio collega, a cui il terremoto ne ha strappati due. E penso alla statua della Madonna: un richiamo, un avvertimento, ma anche una presenza, un modo di rincuorarmi, per lavorare con più attenzione, per riconoscere la presenza di un disegno grande nel dolore della gente.
(Fabio Capolla, Giornalista de Il Tempo)