È un privilegio rivolgermi a voi, al famosissimo Meeting di Rimini, è anche un onore essere associato a Comunione e Liberazione, essere qui con voi.
Peraltro è sempre un piacere anche solo essere in Italia, perché in questo Paese ho passato moltissimi momenti molto belli e qui, tra l’altro, quasi trent’anni fa ho chiesto a mia moglie di sposarmi. Adesso, tre decenni e quattro figli dopo, mi fa molto piacere rievocare quel momento.
Come sapete, sono anche un nuovo membro della Chiesa Cattolica, sono neofita. E quindi sono in soggezione dovendo parlare davanti a un gruppo illustre di persone così eminenti, mi sento umile e vi ringrazio per questo benvenuto così caloroso. Da quando ho cominciato i preparativi per divenire cattolico sentivo che stavo tornando a casa e in questa casa sento che c’è il mio cuore, ed è a questo luogo che appartengo.
Sono appena ritornato da un viaggio in Cina. Ci vado molto spesso, è un Paese che mi affascina moltissimo. Guardo come cresce, come si sviluppa non solo economicamente, ma anche a livello politico e culturale. Durante la mia visita ho discusso anche di cambiamenti climatici con i leader cinesi. Un argomento, quello del clima, per cui, a differenza di quanto si possa pensare in Occidente, la Cina sta dimostrando un impegno forte, determinato per cominciare a ridurre le emissioni di anidride carbonica.
Ho parlato a una conferenza in una delle provincie più povere, in una città dal nome Guiyang e mi sono reso conto che ci stanno davvero provando, stanno lavorando per far superare ai cinesi la povertà, promuovendo la crescita e rendendola sostenibile, utilizzando fonti energetiche più pulite come l’energia solare. Però, come sempre in questi casi, mi sono portato via più di quanto mi sarei immaginato. Perché con i cinesi ho discusso anche di assistenza sanitaria, di riforma della sanità e di come la Cina cerca di sviluppare il suo Welfare state.
I cinesi si stanno occupando della relazione tra persona, stato e comunità e stanno elaborando alcune soluzioni radicali che ci potrebbero sorprendere.
Stanno studiando quello che abbiamo fatto noi in Europa, quello che abbiamo fatto bene e quello che invece abbiamo sbagliato. Si rendono conto dell’equilibrio tra lo Stato e il bisogno della responsabilità individuale, tra i servizi statali e la concorrenza.
È chiaro che faranno le cose alla cinese, ma i dilemmi e le scelte in politica si sa che sono sempre presenti. C’è un’altra cosa che ho trovato molto interessante in Cina. So che le relazioni tra la Cina e la Chiesa Cattolica rimangono estremamente difficili per motivi conosciuti, spero però che nei tempi queste difficoltà siano superate.
Ascoltando però i discorsi sull’ambiente, sentendo come descrivono la relazione tra l’individuo e il governo, tra la società e lo Stato, mi ha molto colpito vedere come la Cina stia sviluppando una prospettiva sul suo futuro basandosi però sulla sua cultura sulla sua civiltà millenaria, sulle sue tradizioni di fedi e della filosofia, il confucianesimo, il taoismo e il buddhismo. Parecchie persone che ho incontrato hanno parlato apertamente della loro fede, e molti di questi erano cristiani, ve lo devo dire, facenti parte di un movimento cristiano crescente che c’è in Cina.
Quindi la Cina, un paese sia antico che nuovo, una Repubblica Popolare che celebra quest’anno il suo sessantesimo anniversario, sta esprimendo a proprio modo i limiti del vedere la società semplicemente come una questione giuridica tra l’individuo e lo Stato. Questo ci dovrebbe dare un momento per la riflessione e la speranza.
Come Primo ministro del Regno Unito per ben 10 anni e anche come leader del partito laburista per 13, periodo durante il quale ho riformato la nostra Costituzione, proprio per quanto riguarda la relazione tra l’individuo e lo Stato, ho avuto l’occasione di imparare tante cose, ho cominciato sperando di riuscire a far felici tutti e sempre, alla fine, ho dovuto ricredermi: ho dovuto chiedermi se avessi fatto felice almeno qualcuno e ogni tanto.
Ho imparato nel tempo che lo Stato è migliore quando riesce a dare strumenti, a emancipare, quando si aggiunge agli sforzi dell’individuo per la sua creatività anziché sostituirsi alla sua individualità, quando, anziché tentare di controllare le nostre vite, ci dà più opportunità affinché possiamo controllare le nostre vite.
È chiaro che lo Stato deve organizzare i servizi pubblici che sono particolarmente preziosi per i più poveri, ma non è necessario che li gestisca sempre e questi servizi devono essere responsabili verso le persone e non viceversa.
Io vedo l’andamento delle politiche e delle ideologie del ventesimo secolo in questo modo: all’inizio la rivoluzione industriale aveva profondamente cambiato il mondo del lavoro, però molte persone erano prive di protezione e i frutti del loro lavoro venivano loro tolti. Così in tutti i nostri paesi è cominciato a crearsi il welfare state, sistemi nazionali di previdenza, di istruzione pubblica e assistenza sanitaria. Però man mano che cresceva la ricchezza delle persone e le loro tasse servivano a finanziare questi servizi erogati, sempre di più si è cercata maggiore qualità, maggiore libera scelta, sistemi che venissero più incontro ai loro bisogni.
Così, almeno nel Regno Unito, è cominciata questa spinta alla riforma per ridurre il potere dello Stato, anzi il potere di tutte le istituzioni collettive, compresi i sindacati. Oggi cerchiamo un equilibrio tra l’equità dei servizi statali forniti e la libera scelta individuale che più spesso viene collegata al settore privato.
Io ho portato avanti quest’approccio nel Regno Unito, ho sviluppato la cosiddetta “terza via” tra uno Stato troppo potente e un mercato troppo liberalizzato e questa era la filosofia alla base delle nostre riforme, nel sistema sanitario nazionale, nell’istruzione, nelle pensioni, nel welfare. Abbiamo anche sviluppato il terzo settore, quello del volontariato.
Come sa bene il professor Vittadini – ne approfitto per esprimere grande ringraziamento al lavoro della Fondazione per la Sussidiarietà – non c’è solo spazio, direi che c’è sempre più spazio per le organizzazioni della società civile affinché si facciano avanti per fare cose che né lo Stato né il mercato possono più fare. E molte di queste attività vengono portate avanti dalle persone di fede, molti membri della nostra Chiesa.
Sto pensando al lavoro prezioso fatto da coloro che accudiscono gli ammalati, a coloro che vengono incontro agli afflitti, a coloro che offrono l’amicizia a chi non ce l’ha, per le strade delle nostre città ma anche in zone più lontane: nell’Africa dove senza il lavoro della nostra Chiesa e della nostra fede molti sarebbero senza speranza, senza amore, forse sarebbero anche senza vita.
Mi piacerebbe che si parlasse di queste opere buone quanto si parla di tante cose brutte che succedono al mondo. Questo lavoro ha un significato più profondo, è una cosa che ho imparato gestendo il governo di un grande paese europeo: ho imparato che la persona e lo Stato, pur appoggiati dalla comunità, non bastano. Una società ha sempre bisogno di un posto anche per la fede.
I limiti dell’individualismo in un certo senso sono abbastanza ovvi, basta vedere la crisi finanziaria, per comprendere che perseguire il massimo dei profitti nel breve termine senza pensare al bene comune è stato un errore e non può portare né al profitto né al bene. Comunque, a un livello più profondo, essere contro una filosofia puramente individualistica, è una cosa che va detta, bisogna rifletterci anche perché i giovani di oggi hanno accesso a molta tecnologia, a molte opportunità: esperienze, buone o cattive che siano, a un livello che la mia generazione non si sarebbe mai sognata. Forse la generazione dei miei genitori avrebbe pensato che questa era quantomeno fantastica per non dire fantascientifica. Il pericolo, però, si delinea: l’inseguire l’edonismo diventa un fine in se stesso ed è qui che può entrare in gioco la fede, tale da poterci insegnare un senso del dovere verso gli altri, la responsabilità per il mondo che ci circonda, ci può portare, come ha detto il Santo Padre, nella Caritas in veritate.
Dopo le esperienze di fascismo, comunismo, e se vedete quello che è accaduto in Corea del Nord o la rivoluzione culturale in Cina, è più facile comprendere i pericoli di uno Stato troppo potente. Io però direi anche che lo stesso concetto di comunità ha i suoi limiti. La parola la usiamo in due sensi: da una parte per distinguerla dal governo, la cosiddetta società civile. L’altro senso è invece per descrivere la comunità generale, l’opinione pubblica. Nei regimi democratici comanda la gente; l’opinione pubblica va sempre corteggiata, bisogna avere i suoi favori, anche se non si arriva a farla arrendere, bisogna comunque gestirla ed è proprio qui che la fede amplia, arricchisce l’idea stessa di comunità.
La recente enciclica è un documento significativo da molti punti di vista: vale la pena leggerla e rileggerla. In tutto il testo c’è un filo conduttore. L’enciclica è come un attacco alla nozione di relativismo, alla descrizione della condizione umana nella società come se fosse un negoziato amorale o una serie di compromessi a cui bisogna scendere con la modernità, o una semplice obbedienza all’opinione maggioritaria. Non che essa (l’enciclica) voglia essere antimoderna, né antidemocratica, però amplia questa relazione, la approfondisce tra i singoli e la comunità entro cui essi vivono.
Pone la verità di Dio al centro di essa.
In un particolare punto, l’enciclica descrive l’umanesimo privo di fede come un umanesimo disumano. Senza Dio, dice il testo, l’uomo non saprà da che parte andare, non saprà nemmeno chi è.
Penso che questo sia ancor più importante oggi. Viviamo infatti nella globalizzazione. Le nostre comunità stanno diventando dei crogiuoli in cui si incontrano diverse razze, diversi popoli, diverse fedi tramite internet, le comunicazioni di massa, i viaggi, l’emigrazione.
Il mondo sta diventando sempre più piccolo e il pericolo è quello di perdere la nostra identità. E c’è un altro pericolo: non riusciamo a comprendere che una comunità globale, esattamente come un paese, se non si vuole che venga dominata dai più potenti o portata avanti da interessi a breve termine, ha bisogno di fini e obiettivi condivisi, una forza che viene generata dal perseguimento del bene comune.
Non possiamo tornare ad essere come delle isole separate: la globalizzazione c’è, siamo già interdipendenti. Guardate a qualunque problema: la crisi finanziaria, i cambiamenti climatici, il terrorismo. Nessuno di questi enormi problemi potrà esser risolto da una singola nazione, nemmeno dagli americani. Dobbiamo allearci, non abbiamo alternative. Ma a che fine? A che pro? Ma soprattutto spinti da quali valori?
Qui voglio di nuovo citare il Pontefice: la globalizzazione ci rende tutti vicini ma non ci rende fratelli. Quindi come gestire il problema della scarsità di risorse nel mondo? Chi fa sentire la voce dei poveri? I rifugiati, i migranti? Come faremo a far prosperare l’intesa e la tolleranza anziché la paura e l’ignoranza? È in questo nuovo spazio che il mondo della fede e la Chiesa Cattolica, cioè universale, che è un modello di istituzione globale, è qui che devono entrare in gioco.
I leader politici non ce la possono fare da soli, non perché siano cattive persone, ma perché il contesto e le limitazioni entro cui si trovano a lavorare rende le cose troppo difficili per loro. Mi ricordo quando al G8 di Gleneagles nel 2005 quando avevamo parlato di cambiamenti climatici, i politici si erano preoccupati, avevano paura delle richieste buttate loro addosso, ma questo fardello si è poi rivelato molto più leggero dal fatto che la Chiesa Cristiana aveva mostrato una grande disponibilità ad aiutare nell’amore di Dio e nella sua Grazia. La Chiesa può essere la voce spirituale, forte, insistente che renderà la globalizzazione al nostro servizio anziché renderci schiavi di essa.
E ha anche un altro scopo. Una parte naturale di questa missione è quella di lavorare insieme a quelli di altre fedi nei nostri paesi e al di fuori. Nella mia fondazione, che ha come scopo quello di promuovere il rispetto e l’intesa tra le varie fedi religiose, io dico sempre una cosa: io sono e sarò sempre cristiano e sarò sempre fedele a nostro Signore Gesù Cristo.
La globalizzazione potrà anche far incontrare persone di diverse fedi, ma non per questo dobbiamo diventare tutti la stessa cosa e trovare una fede che sia un comune denominatore. Siamo tutti insieme ma manteniamo le nostre caratteristiche precipue, le nostre fedi.
Quindi ci rispettiamo, ma non siamo gli uni uguali agli altri, però lavoriamo insieme: la mia fondazione ha programmi per il settore dell’istruzione: programmi che funzionano in almeno 20 paesi di 3 continenti, c’è anche un’istruzione alla religione che si basa su internet affinché le persone possano parlare gli uni con gli altri aldilà di tutti i confini religiosi.
Lo scorso mese ho partecipato a una sessione in internet tra una scuola a Dehli, una a Bolton in Inghilterra e una in Palestina. Abbiamo un programma per stabilire dei collegamenti tra le varie fedi nella lotta contro la malaria che uccide un milione di persone ogni anno, soprattutto bambini e in Africa, purtroppo. Molte comunità in Africa non hanno un ospedale, ma hanno sempre una chiesa o una moschea. Quindi stiamo aiutando per creare delle organizzazioni interreligiose, abbiamo cominciato il lavoro in Nigeria, che è stato portato avanti dall’arcivescovo di Abuja e dal sultano di Sokoto, leader della comunità musulmana, con la collaborazione della banca mondiale. Mobiliteranno le loro comunità, formeranno personale sanitario, farmaci e zanzariere per salvare tante vite di bambini. Altri esempi sono in Mozambico, in Ruanda, in Mali e in altri paesi.
Molto spesso la religione viene vista come fonte di conflitto, di divisione ed è proprio questa manifestazione che consente il laicismo aggressivo in certe parti dell’occidente.
Invece dobbiamo riuscire a mostrare che la fede si impegna per la giustizia, per la solidarietà tra popoli e nazioni e come riesce a farlo insieme ai popoli di altre religioni, proprio in questo modo riusciremo a mostrare il vero volto di Dio, dell’amore di Dio, della sua pietà e della sua compassione.
Questo è il ruolo della fede nei tempi moderni: che faccia quello che la fede da sola riesce a fare, raggiungere quello che invece né una persona, né una comunità, né uno Stato da soli né insieme potranno mai raggiungere. Rappresentare la verità di Dio, ma non quella limitata dalla fragilità umana o dagli interessi di uno Stato o, ancora, dalle abitudini transitorie di una comunità, ma per far sì che quella verità ci infonda l’umiltà, l’amore per il prossimo e la vera conoscenza che riesce veramente ad andare aldilà di ogni comprensione.
Questa è la Fede, non una forma di superstizione, non una sicurezza contro le difficoltà della vita, ma la Fede come salvezza per la condizione umana. Non una fede come una magia, non come una via di fuga dalle complessità della vita bensì la Fede come scopo nella vita. La fede quindi non come un mistero per cui ci disperiamo, bensì la Fede come un mistero che esprime tutte le limitazioni della mente umana.
La Fede e la ragione, insieme, alleate, mai in opposizione. Fede e ragione si danno appoggio a vicenda, si vengono incontro, si rafforzano, mai si contendono la supremazia, mai si mettono in competizione perché sono già supreme insieme. Ecco perché la voce della Chiesa va sempre ascoltata, ecco perché dev’essere una voce che dà fiducia, una voce chiara, una voce aperta, perché aldilà di ogni nazione quella voce della Fede deve sempre essere ascoltata. Questa è la nostra missione per il ventunesimo secolo, per i tempi moderni, per il futuro. La scienza, la tecnologia, tutti i progressi dell’umanità non renderanno questa voce meno importante, anzi la renderanno sempre più importante.
Quindi anche con l’umiltà di un neofita che è entrato nella Chiesa Cattolica da poco, vi voglio dire siate forti, siate audaci: i giorni migliori della nostra fede, con l’aiuto di Dio, sono ancora davanti a noi, hanno a venire, grazie.
Giorgio Vittadini: Pongo alcune domande che riprendono alcuni temi trattati. La prima riprende quella parte dell’intervento che riguarda la sua eredità politica. Sappiamo, e ce lo ha raccontato ora, che lei ha determinato, non solo per la politica laburista, ma per tutta la Gran Bretagna, una trasformazione storica. Una trasformazione che è andata al di là della Gran Bretagna e ha costituito una rivoluzione delle politiche europee. Quali sono le eredità di questo suo lungo periodo di governo?
Tony Blair: Ci sono due principi di base nelle nostre riforme: il primo principio è che le persone devono far sì che lo Stato e i suoi servizi siano responsabili, debbano rendere conto. Quindi siamo venuti alla conclusione che dovevamo riformare i nostri servizi pubblici, la nostra amministrazione, quindi li abbiamo aperti, liberalizzati, per offrire diversi servizi, diversificare, per cui se una persona non era contenta poteva rivolgersi a un altro fornitore restando nel pubblico. Penso che queste riforme debbano essere portati avanti.
Avevamo anche visto molto chiaramente che quando si provano a gestire problemi difficili come questi, che riguardano il welfare, è molto importante far sì che le persone vedano il welfare state, come un aiuto e non come un ostacolo, che gli viene incontro e non che gli rende la vita difficile. Quindi lo Stato non deve mai sostituirsi al senso di responsabilità personale. Talvolta c’è una sorta di tradimento per cui le cose non vengano percepite in modo giusto. Ma la cosa peggiore che si può fare a qualcuno è renderli eccessivamente dipendenti dallo Stato, laddove non ce ne sia la necessità. Questo era un principio.
L’altro era il seguente (molto simile alla vostra idea di sussidiarietà): volevamo portare il potere più a livello locale, regionale, in periferia. Per cui abbiamo fatto una devolution di poteri (non è mai facile quando c’è un forte potere centrale). Se fossi ancora a Downing Street e dicessi “voglio che accada questo e quest’altro” mi sentirei dire: “Ci scusi Primo Ministro, ma lei ormai ha dato i poteri a qualcun altro, sono loro i responsabili”.
Io penso però che il potere esercitato dal basso verso l’alto sia il miglior tipo di potere possibile: è qui che entra in gioco la società civile.
So che voi portate avanti un programma di aiuto ai detenuti. Quando uno sta al governo, deve fare una riflessione politica e dice “aiutiamo i detenuti”. È chiaro che uno deve pensare ai sondaggi di opinione, alla soddisfazione.
È proprio a questo punto che la Chiesa e la società civile, che non si occupano di queste cose, non hanno la preoccupazione della soddisfazione, si devono occupare solo del bene, si possono mettere in gioco e darsi da fare, e alcune cose di quelle fatte dallo Stato secondo me verrebbero fornite a un livello più alto se lo facessero organizzazioni di volontariato e di terzo settore. E questo non scarica lo Stato dai propri obblighi, semplicemente ve lo dico per comprendere, che lo Stato talvolta può essere uno strumento non molto efficace, invece nel territorio, nella base, le persone possono essere più sensibile, più pronte, e penso che ci sia ancora molto da fare su questa strada, nell’attuare la politica di sussidiarietà.
Torniamo al tema della conversione: lei ha parlato a lungo della connessione tra la sua conversione e il suo impegno. Sarebbe interessante sapere cosa l’ha portata, nel contesto anglicano in cui viveva, a questa decisione così impegnativa per la sua vita. Cosa ha trovato di più convincente nel cattolicesimo?
Francamente è tutta colpa di mia moglie. Io ho cominciato ad andare a messa, ovviamente avevamo piacere di andare in chiesa insieme. A volte andavamo in una chiesa anglicana, a volte in una cattolica (indovinate in quale andavamo di più…). Però man mano che passava il tempo, io andavo in chiesa già da molti anni, sentivo sempre di più che la Chiesa cattolica era casa mia. Non solo per il magistero o per la dottrina della Chiesa, ma per la natura universale della Chiesa cattolica. In questi ultimi due anni sono andato a messa a Pechino, a Singapore, a Kigali, a Tokio. A Tokio sono entrato di soppiatto e mi sono seduto in ultima fila zitto-zitto.
Alla fine della S. Messa una signora che aveva letto le scritture e aveva dato gli avvisi disse: «Abbiamo una tradizione in questa Chiesa, e cioè che tutti i visitatori stranieri si alzino, si presentino e raccontino qualcosa di sé».
Così, per la prima volta dopo un lunghissimo periodo ho potuto alzarmi tranquillamente davanti a questo gruppo di giapponesi e dire: «Mi chiamo Tony e vengo da Londra».
Uno dei temi principali, anche in questi giorni di grande difficoltà, è quello legato alle società multiculturali, in Italia è ancora difficile vivere questa dimensione. Invece in Inghilterra questa è la quotidianità già da molti anni, e lei ha governato anche questo fenomeno. Che cosa ha imparato da questa esperienza, come si fa a costruire un società multiculturale?
Questa è una delle più grandi sfide dei nostri tempi ed è anche il motivo per cui ho creato la mia “Faith Foundation”. Due cose ci terrei a dire su come gestire questo problema in un Paese come sono i nostri. La prima è questa: anche se possiamo essere di fedi diverse, nelle nostre grandi città viviamo tutti gli uni accanto agli altri. Ad esempio nella strada dove vivo io a Londra ci saranno almeno sei religioni rappresentate. Siamo di religione diversa, è un fatto. Ma nonostante questo ci riconosciamo tutti in un Paese in cui ci sono valori comuni. Valori che sono lì da moltissimo tempo. Ed è importante che questi valori vengano osservati da tutti. Ecco perché a prescindere da qualunque differenza culturale o religiosa ci sono dei principi condivisi stabiliti sullo stato di diritto, sulla legge di un paese, sui diritti delle persone e che fanno parte del nostro retaggio collettivo. E che secondo me tutti, a prescindere dalla fede, devono accettare.
La seconda cosa che vi volevo dire è una cosa difficile da dire, talvolta. Nei nostri Paesi, nonostante il fatto che accogliamo persone di altre religioni, abbiamo delle radici giudaico-cristiane. E dobbiamo essere fieri di questo retaggio. È la nostra eredità più importante. Quindi, questa è un po’ la prospettiva giusta per vedere questa problematica.
Se il Professor Vittadini e io andassimo a vivere in un Paese in cui prevalesse un’altra religione lì chiederebbero, anche a noi, di conformarci ai loro usi e consumi. Penso che in questo modo possiamo dare un senso alla globalizzazione, che favorisce così tante opportunità e possiamo anche tenerci il senso della nostra storia della nostra identità che si è andata strutturando nel corso dei millenni. Se vediamo le cose così penso che possiamo solo andare avanti e progredire.
Un’ultima domanda connessa al suo ruolo attuale di rappresentante del Quartetto. Che speranze per la pace in Medio Oriente, che scenari vede possibili e positivi per la pace e la risoluzione dei problemi che sta affrontando?
Sono stato Primo Ministro del Regno Unito per 10 anni, poi ho pensato: mi dedico a qualcosa di più facile. E quindi ho scelto il processo di pace in Medio Oriente. Una buona scelta per stare tranquilli. Invece, vi devo dire che è veramente dura.
Però una cosa è chiara: volere è potere, secondo me. Israele deve veder garantita la propria sicurezza, la propria incolumità e i Palestinesi devono avere la dignità di uno stato indipendente arabo. E questo va costruito nelle due direzioni, dal basso verso l’alto e viceversa.
In Irlanda del Nord non c’è mai stato un accordo sulla soluzione definitiva: Regno Unito o Irlanda unita?
Ecco perché abbiamo dovuto portare la pace in circostanze in cui in realtà il problema non era risolto. Comunque, la cosa buona, in un certo modo, è che c’è accordo. L’accordo c’è in merito alla soluzione in Medio Oriente: due stati che vivono uno accanto all’altro. Però, il problema è questo.
Uno dei grandi vantaggi nel fare questo tentativo è che passo un sacco di tempo in Terra Santa, ed è una cosa bellissima.
Quando si attraversa il fiume Giordano si va in un posto stupendo e da lì si può guardare dall’alto del monte come se si guardasse la Terra Promessa, e si vede tutta la valle del Giordano e in lontananza al crepuscolo si vedono le luci di Gerusalemme. Stiamo parlando di un piccolissimo pezzetto di Terra. Ma affinché ci possano essere due stati in questo piccolissimo pezzetto di Terra ci deve essere solo fiducia reciproca.
E questo comporta che gli israeliani hanno bisogno di sapere che lo Stato palestinese sarà gestito bene e governato bene e i Palestinesi hanno bisogno di sapere che gli israeliani finalmente se ne andranno dal loro territorio e li lasceranno gestire il loro Stato.
È su questo che stiamo lavorando, su questa soluzione. Molti dicono che in realtà la religione non c’entra, ma quando sono a Gerusalemme e guardo fuori dalla mia finestra vedo quanto sia assurdo dire che lì la religione non c’entra niente, non è vero.
(Trascrizione dell’incontro svoltosi il 27 agosto 2009 al Meeting di Rimini non rivista dai relatori)