A partire dai primi anni ’80 la percentuale di famiglie in condizione di povertà relativa, cioè con un livello di spesa per consumi inferiore ad una soglia definita in base al valore medio di ciascun anno della spesa mensile di una famiglia di due componenti, è sempre stata prossima al 10%, con un aumento particolarmente importante soltanto nel periodo 1987-1989, quando circa il 14% delle famiglie residenti in Italia si collocava al di sotto della soglia di povertà relativa. Se è pur vero che dopo la seconda metà degli anni ’90, il fenomeno risulta sostanzialmente stabile a livello nazionale (11%), va sottolineato che esso si presenta con differenze di rilievo e ben delineate a seconda delle caratteristiche delle famiglie e della localizzazione territoriale (anche se tali confronti non tengono attualmente conto del differente potere di acquisto nelle varie aree del paese).
Come è noto, la povertà relativa è tradizionalmente più diffusa tra le famiglie residenti nel Mezzogiorno, colpisce le famiglie più ampie, con due o più figli – soprattutto se minori – o con più generazioni (ad esempio, i genitori di uno dei coniugi), le famiglie con anziani e persone non inserite nel mercato del lavoro e le famiglie dei cosiddetti working poor, con a capo, cioè, individui occupati dai bassi o incerti profili professionali. Attenzione, tali profili non si riferiscono alle cosiddette povertà estreme, in quanto, per definizione, le famiglie intervistate dall’Istat vengono selezionate a partire dalle liste anagrafiche o dagli indirizzi degli alloggi censiti/rilevati, e quindi non includono le persone senza fissa dimora, alloggiate in abitazioni precarie/improprie, oppure in condizioni di clandestinità.
Nonostante la sostanziale stabilità del fenomeno, nel corso degli anni sono emersi elementi di dinamicità per specifici gruppi di famiglie e persone, solo in parte imputabili ai cambiamenti demografici (invecchiamento, progressiva diminuzione della dimensione media familiare), che hanno contribuito a differenziare le distanze socio-economiche tra i sottogruppi di popolazione.
Il divario fra il Nord e il Sud del paese resta però elevato. Nel 2006 le famiglie relativamente povere nel Sud hanno superato il 22% e il 65,3% delle famiglie e il 69% delle persone povere risiede in tale ripartizione. Anche l’analisi dell’intensità di povertà (che indica di quanto le famiglie povere sono al disotto della soglia di povertà relativa) mostra come, nelle regioni meridionali, alla più ampia diffusione del fenomeno si accompagni una sua maggiore gravità. Particolarmente disagiata appare la condizione della famiglie siciliane tra le quali, nel 2006, l’incidenza di povertà ha raggiunto il livello massimo, pari al 28,9%. Infine, un quarto delle famiglie con cinque e più componenti risulta in condizione di povertà relativa con una tendenza all’impoverimento che è divenuta sempre più evidente.
La povertà risulta particolarmente elevata anche tra le famiglie con tre e più figli minorenni, che presentano un’incidenza del 30,2% a livello nazionale e del 48,9% nel Mezzogiorno. Ne deriva che circa 1 milione 728 mila minori vivono in famiglie povere.
Una novità è invece la condizione di povertà tra i giovani (18-24 anni); tra questi ben 1 milione 546 mila è povero: il 62,3% vive ancora nella famiglia di origine, mentre il 33,1% ha costituito una nuova famiglia. Nel Centro-nord il fenomeno riguarda soprattutto i giovani che hanno lasciato la famiglia di origine (nel ruolo di persona di riferimento o coniuge), a causa della difficoltà a condurre una vita indipendente mentre nel Mezzogiorno la condizione di povertà dei giovani si presenta già all’interno delle famiglie di origine, scoraggiando così l’inizio di una vita autonoma. La povertà è in aumento anche tra le famiglie dove sono presenti più generazioni (dove ha ormai raggiunto un’incidenza pari al 18%), per le quali la convivenza, che determina importanti economie di scala, costituisce proprio una strategia contro la povertà.
La povertà relativa è fortemente associata alla mancanza di lavoro e alla precaria o non qualificata partecipazione al mercato del lavoro: è povero più di un quinto (21,1%) delle famiglie con almeno un componente in cerca di occupazione, circa un terzo (32,8%) di quelle dove i componenti in cerca di lavoro sono due o più. Se non sono presenti né componenti occupati né componenti ritirati dal lavoro, l’incidenza di povertà arriva quasi al cinquanta per cento (49,4%). Nel tempo è peggiorata anche la condizione delle famiglie dove la presenza di almeno una persona in cerca di occupazione si combina con quella di componenti occupati: l’incidenza, nel 2006, ha raggiunto il 24,1% e indica la crescente difficoltà a fronteggiare l’assenza e la precaria domanda di lavoro. Infine, la povertà è andata progressivamente aumentando tra le famiglie dove l’occupazione è caratterizzata da bassi o incerti profili professionali; livelli di incidenza superiori alla media (15,1%) si osservano, infatti, anche tra le famiglie con persona di riferimento operaio o assimilato, in condizione di co.co.pro. o di collaboratore occasionale.
Per concludere con una nota più positiva, merita segnalare che la diffusione del fenomeno è nel tempo diminuita tra le persone che vivono da sole, in particolare tra gli anziani e soprattutto nelle regioni del Nord; tale miglioramento sembra dovuto all’entrata nell’età anziana di generazioni meno svantaggiate rispetto a quelle nate e cresciute a ridosso dei periodi bellici, con titoli di studio più elevati e una storia contributiva migliore. Nonostante la dinamica sia stata favorevole, i tassi di povertà per gli anziani soli e per le coppie di anziani risultano ancora circa tre volte più elevati (12,6% e 12,5% rispettivamente) rispetto a quelli dei single e delle coppie in età lavorativa.
Come è noto, la povertà relativa è tradizionalmente più diffusa tra le famiglie residenti nel Mezzogiorno, colpisce le famiglie più ampie, con due o più figli – soprattutto se minori – o con più generazioni (ad esempio, i genitori di uno dei coniugi), le famiglie con anziani e persone non inserite nel mercato del lavoro e le famiglie dei cosiddetti working poor, con a capo, cioè, individui occupati dai bassi o incerti profili professionali. Attenzione, tali profili non si riferiscono alle cosiddette povertà estreme, in quanto, per definizione, le famiglie intervistate dall’Istat vengono selezionate a partire dalle liste anagrafiche o dagli indirizzi degli alloggi censiti/rilevati, e quindi non includono le persone senza fissa dimora, alloggiate in abitazioni precarie/improprie, oppure in condizioni di clandestinità.
Nonostante la sostanziale stabilità del fenomeno, nel corso degli anni sono emersi elementi di dinamicità per specifici gruppi di famiglie e persone, solo in parte imputabili ai cambiamenti demografici (invecchiamento, progressiva diminuzione della dimensione media familiare), che hanno contribuito a differenziare le distanze socio-economiche tra i sottogruppi di popolazione.
Il divario fra il Nord e il Sud del paese resta però elevato. Nel 2006 le famiglie relativamente povere nel Sud hanno superato il 22% e il 65,3% delle famiglie e il 69% delle persone povere risiede in tale ripartizione. Anche l’analisi dell’intensità di povertà (che indica di quanto le famiglie povere sono al disotto della soglia di povertà relativa) mostra come, nelle regioni meridionali, alla più ampia diffusione del fenomeno si accompagni una sua maggiore gravità. Particolarmente disagiata appare la condizione della famiglie siciliane tra le quali, nel 2006, l’incidenza di povertà ha raggiunto il livello massimo, pari al 28,9%. Infine, un quarto delle famiglie con cinque e più componenti risulta in condizione di povertà relativa con una tendenza all’impoverimento che è divenuta sempre più evidente.
La povertà risulta particolarmente elevata anche tra le famiglie con tre e più figli minorenni, che presentano un’incidenza del 30,2% a livello nazionale e del 48,9% nel Mezzogiorno. Ne deriva che circa 1 milione 728 mila minori vivono in famiglie povere.
Una novità è invece la condizione di povertà tra i giovani (18-24 anni); tra questi ben 1 milione 546 mila è povero: il 62,3% vive ancora nella famiglia di origine, mentre il 33,1% ha costituito una nuova famiglia. Nel Centro-nord il fenomeno riguarda soprattutto i giovani che hanno lasciato la famiglia di origine (nel ruolo di persona di riferimento o coniuge), a causa della difficoltà a condurre una vita indipendente mentre nel Mezzogiorno la condizione di povertà dei giovani si presenta già all’interno delle famiglie di origine, scoraggiando così l’inizio di una vita autonoma. La povertà è in aumento anche tra le famiglie dove sono presenti più generazioni (dove ha ormai raggiunto un’incidenza pari al 18%), per le quali la convivenza, che determina importanti economie di scala, costituisce proprio una strategia contro la povertà.
La povertà relativa è fortemente associata alla mancanza di lavoro e alla precaria o non qualificata partecipazione al mercato del lavoro: è povero più di un quinto (21,1%) delle famiglie con almeno un componente in cerca di occupazione, circa un terzo (32,8%) di quelle dove i componenti in cerca di lavoro sono due o più. Se non sono presenti né componenti occupati né componenti ritirati dal lavoro, l’incidenza di povertà arriva quasi al cinquanta per cento (49,4%). Nel tempo è peggiorata anche la condizione delle famiglie dove la presenza di almeno una persona in cerca di occupazione si combina con quella di componenti occupati: l’incidenza, nel 2006, ha raggiunto il 24,1% e indica la crescente difficoltà a fronteggiare l’assenza e la precaria domanda di lavoro. Infine, la povertà è andata progressivamente aumentando tra le famiglie dove l’occupazione è caratterizzata da bassi o incerti profili professionali; livelli di incidenza superiori alla media (15,1%) si osservano, infatti, anche tra le famiglie con persona di riferimento operaio o assimilato, in condizione di co.co.pro. o di collaboratore occasionale.
Per concludere con una nota più positiva, merita segnalare che la diffusione del fenomeno è nel tempo diminuita tra le persone che vivono da sole, in particolare tra gli anziani e soprattutto nelle regioni del Nord; tale miglioramento sembra dovuto all’entrata nell’età anziana di generazioni meno svantaggiate rispetto a quelle nate e cresciute a ridosso dei periodi bellici, con titoli di studio più elevati e una storia contributiva migliore. Nonostante la dinamica sia stata favorevole, i tassi di povertà per gli anziani soli e per le coppie di anziani risultano ancora circa tre volte più elevati (12,6% e 12,5% rispettivamente) rispetto a quelli dei single e delle coppie in età lavorativa.