Sono diventati familiari a tutti noi italiani, e non solo a noi italiani!, i nomi di alcuni bambini inglesi, gravemente malati: sono Isaia, Charlie, Alfie, morti recentemente dopo averli esposti a un accanimento mediatico, che ne ha fatto le vittime innocenti di una curiosità morbosa, esplosa a livello globale. La domanda cruciale è stata sempre la stessa: staccare o non staccare la spina?; continuare a idratarli e a nutrirli o sospendere tutte le cure, anche le più elementari, come per l’appunto idratazione e nutrizione? Abbiamo sentito la voce di esperti di ogni cosa, ma quasi sempre prigionieri di un approccio dilemmatico, costruito sul filo di un ragionamento in stile digitale: sì o no; bianco o nero. Giusto o sbagliato; vero o falso… Incapaci di porsi in un’ottica di tipo problematico, per considerare il problema nella sua complessità e tentare un bilanciamento dei diritti, per includere anche l’indispensabile riferimento alla speranza, a cui nessun paziente, nessun genitore, nessun medico, dovrebbe mai rinunciare.
Hanno pontificato in punta di diritto su ciò che era lecito fare, o ciò che invece non era lecito fare. Hanno contrapposto una bioetica laica, scientificamente rigida, a una bioetica vivificata da una prospettiva valoriale più ampia. Raramente si sono posti dalla parte di quei genitori che pensano di doversi prendere cura del loro figlio fino alla fine. Lo hanno generato alla vita, non per consegnarlo alla morte, che comunque arriverà per loro come per ognuno di noi. Noi invece abbiamo fatto il contrario: pur credendo nella scienza e contemplando i progressi quotidiani della tecnica, abbiamo ritenuto che fosse necessario, ma non sufficiente. E allora ci siamo schierati dalla parte dei bambini e dei loro genitori; abbiamo considerando naturale che chi ha generato un figlio voglia difenderne il diritto alla vita e questo non significhi necessariamente accanimento terapeutico, ma semplicemente amore. Abbiamo sostenuto il diritto dei genitori a riportare a casa i propri figli, per prendersene cura e rispettare i tempi della vita, accettando la morte, ma senza accelerarne il decorso. Abbiamo creduto che ci fosse un’ecologia della vita umana che impone il rispetto di tempi e ritmi e guarda alla scienza come dono e come compito, ma non come un assoluto. Sappiamo che la scienza stessa cambia, evolve e rende possibili cose che fino a poco prima non lo erano…Vogliamo essere scientificamente onesti, che significa anche ottimisti.
Papa Francesco, nel messaggio al convegno sul “fine vita” promosso dalla Pontificia Accademia per la vita, ha ricordato come sia moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure”. Il Papa ha invocato “un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”. Ma papa Francesco è intervenuto dalla sua Cattedra più alta, la finestra da cui si affaccia ogni domenica, per schierarsi dalla parte di Isaia, di Charlie e di Alfie. Per quest’ultimo poi, per difenderne il diritto alla vita, ha messo a disposizione il “suo” ospedale: il Bambin Gesù. Ha inviato il Direttore generale: la Dottoressa Enoc e ha dialogato con il governo italiano perché ad Alfie venisse concessa la cittadinanza italiana, per condurlo in Italia e curarlo. Evidentemente ha ritenuto che ci fosse proporzionalità nelle cure. Alfie Evans è diventato a tutti gli effetti cittadino italiano e il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, ha ratificato quanto deciso dal governo, “in considerazione dell’eccezionale interesse per la comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute”. Ma la decisione non sembra aver influenzato il giudice dell’Alta Corte britannica Anthony Hayden.
Ora l’Alta corte in Gran Bretagna, in linea con quanto ha fatto finora, ha stabilito che: «In Gran Bretagna non sarà più richiesta l’autorizzazione legale per porre fine alle cure per i pazienti in uno stato vegetativo permanente”. Da adesso, quindi, sarà più facile interrompere l’alimentazione di questi pazienti, accelerando il loro morire. Per staccare i tubi dell’alimentazione basterà l’accordo tra medici e familiari, senza l’intervento della Court of Protection, perché secondo la Corte Suprema non c’è violazione della Convenzione per i diritti umani. Ovviamente in questa decisione c’è anche una motivazione di natura economico-finanziaria: la Court of Protection si è pronunciata su casi del genere per 25 anni, ma per ogni singolo caso ci sono voluti tempi lunghi e alti costi.
In Italia la Legge sulle Dat, approvata dal Governo alla fine della XVII legislatura, prevede la sospensione della nutrizione e idratazione, affermando che ogni persona maggiorenne e capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi terapia o di revocare, in qualsiasi momento, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Nutrizione e idratazione vengono equiparate a trattamenti sanitari e quindi è possibile chiedere lo stop alla loro somministrazione e rifiutarli. Per i minori il consenso informato è espresso o rifiutato dai genitori o dal tutore. Nel caso in cui il rappresentante legale del minore rifiuti le cure proposte, la decisione è rimessa al giudice tutelare. Il che significa che ogni bambino ha comunque un proprio rappresentante legale e la possibilità di accedere a un giudice terzo. In altri termini si è cercato di tutelare la volontà dell’adulto, pur rendendo la sua morte un gesto di prossimità alla richiesta eutanasica e nel caso del minore, pur rispettando la volontà dei genitori, si è contemplata la possibilità che questa potesse non essere conforme al bene del minore e quindi la norma prevede il possibile ricorso al giudice.
Quello che è avvenuto in queste ore in Inghilterra è un passo avanti in più, esplicito, verso l’eutanasia. La storia dei tre bambini citata all’inizio mostra come in Gran Bretagna ci sia un grande fermento per giungere all’eutanasia in forma legalizzata. Lo conferma anche un rapporto redatto dalla Commission on Assisted Dying. Commissione presieduta da Lord Falconer, avvocato ed ex ministro della Giustizia, formata da 11 esperti. La commissione nell’ultimo anno ha sentito oltre 1.300 persone e nel suo rapporto finale conclude che il suicidio assistito dovrebbe essere permesso e secondo il rapporto la legge attuale in GB è “inadeguata, incoerente e non dovrebbe continuare a esistere”.
Ciò che ci preoccupa è che troppo spesso quando si trattano temi bioetici l’Inghilterra fa da apripista anche in Italia, che ha una cultura, una tradizione e un modello normativo del tutto diversi. La risposta al dolore terminale non è l’eutanasia, ma un’adeguata palliazione, che meglio risponde ai diritti umani. Inutile addolcire il contenuto con parole melliflue: l’eutanasia è un suicidio vero e proprio, assistito quanto serve, ma tanto più grave quando riguarda un bambino, soprattutto se si crea una strana alleanza tra genitori e medico di famiglia, che non può compierlo senza tradire la propria professione, anche qualora ciò fosse legale! La palliazione più accurata, più studiata, multidisciplinare, rimane la soluzione umana migliore al problema del dolore terminale.