Fabrice Hadjadj parlerà oggi al Meeting di Rimini sul tema «L’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità». La nostra fede, ed è un pensiero che Hadjadj condivide con don Luigi Giussani, «non può più essere ideologica, fondata su di una semplice eredità, o legata ad una sorta di arruolamento fideistico, senza implicare un lavoro personale di verifica». E come non si può essere cristiani fuori dalla storia, così non lo si può essere fuori dal dramma. «La nostra – dice Hadjadj a ilsussidiario.net – è una certezza drammatica. E come tale è apocalittica..»
La modernità ha prodotto il massimo dell’incertezza, o piuttosto ha dato all’uomo delle false certezze: da dove passa allora la strada per ricostruire la certezza?
È vero, la modernità ha proposto diverse false certezze. Si può affermare che ciò che ha segnato in modo negativo la modernità è una sorta di rottura, ma si tratta di una rottura che ha anche molti aspetti positivi. Essa ha trasformato in valori alcuni elementi essenziali del cristianesimo: penso per esempio alla libertà umana, alla giustizia sociale, alla dignità della persona, all’uomo che si assume interamente la responsabilità della propria vita.
Sono verità che appartengono realmente al patrimonio cristiano.
La modernità ha valorizzato questi fattori e per un istante ne siamo stati affascinati: pensiamo a quando prendiamo un fiore e lo mettiamo in vaso, e proprio per questo possiamo ammirarlo. La modernità è questo, e facendo questo ci ha permesso di prendere coscienza di queste dimensioni del cristianesimo. Ma il problema è che quando tagliamo il fiore per ammirarlo, ne decretiamo la morte. È quello che è accaduto con la modernità. I suoi punti di forza sono stati credere nel progresso e nella costruzione della società perfetta. In questo tragitto, la fede in Dio è divenuta fede nell’uomo.
E qual è l’esito finale dell’umanesimo moderno?
Questa modernità è collassata: le sue certezze, da umanistiche divenute atee, si sono distrutte. Questa modernità è implosa dall’interno, perché i progressismi sono divenuti totalitarismi, ed in più è stata contestata dall’«esterno»: dal darwinismo, che pensa che l’uomo sia frutto del caso, un «bricolage» dell’evoluzione, e dalla prospettiva della sparizione dell’umanità per mano dell’uomo stesso, come è avvenuto a Hiroshima. Allora è venuto il momento del post moderno: un post-umanesimo che non è meno pericoloso delle false certezze della modernità.
Per quale motivo?
L’attuale post-umanesimo presenta tre dimensioni: tre filosofie errate che sembrano antitetiche, ma che in realtà sono profondamente in relazione. L’ecologismo, per il quale l’uomo è il predatore della natura. Esso auspica il regresso dell’uomo fuori dalla storia, verso i cicli naturali; il tecnicismo, l’idea cioè che la tecno scienza può fabbricare un superuomo, un uomo nuovo competitivo e performante. Ma è chiaro che questo superuomo in realtà è un sotto-uomo, perché viene a dipendere dal mercato. Infine viene l’esito di una fuga in avanti dell’umanesimo, per cui si arriva ad una sorta di deismo fondamentalista.
In che modo questi post-umanismi ostacolano il riconoscimento della verità cristiana?
Producendo una frammentazione, di dislocazione interna alla verità cristiana, che è qualcosa di essenzialmente equilibrato, facendo coesistere perfettamente la verità e la ragione, la carne e lo spirito, la storia e l’eternità. In questo campo di rovine, dove tutte le speranze e le utopie progressiste moderne sono collassate, ci rendiamo ormai conto che se vogliamo ancora salvare l’uomo non possiamo più fare ricorso alla modernità, ma nemmeno possiamo rivolgerci alla postmodernità. Comprendiamo sempre di più che un vero umanesimo non può che fondarsi sull’idea che l’uomo, così come è dato, contiene un mistero, è stato desiderato da Dio, riscattato da Lui.
Lei guarda più a sant’Agostino, a san Tommaso d’Aquino o a Pascal?
Sono molto più vicino ad Agostino e a Tommaso che a Pascal. Ho sicuramente un debito immenso nei confronti di Tommaso d’Aquino in ragione della sua metafisica e della sua filosofia dell’essere, ma per lo stile sono piuttosto orientato verso Agostino, per il senso straordinario che egli ha dell’esistenza come un canto, per il «pensiero musicale» che ha della teologia e della vita umana.
E in che cosa è debitore di don Giussani?
Buona parte del mio pensiero era già formata quando ho incontrato Giussani, ma l’incontro che ho avuto con i suoi scritti è stato per me una grande conferma. In lui ho trovato un padre, un fratello, qualcuno con cui mi sono sentito in consonanza totale.
Quali sono le ragioni di questa stima così profonda?
In un’epoca di distruzione di certezze e di incertezza radicale sulla vita dell’uomo, don Giussani dice: guardate che il vostro cristianesimo, la vostra fede, non può più essere ideologica, non può più essere fondata su di una semplice eredità, o legata ad una sorta di arruolamento fideistico, senza implicare un lavoro personale di verifica. La certezza, è come se dicesse Giussani, deve essere radicata nel concreto dell’esistenza. Il titolo del Meeting di quest’anno esorta a ripartire proprio dall’esistenza, dal fatto dell’esistenza. È questa l’assise di ogni certezza.
Può la certezza diventare definitiva – o «immensa», come dice il titolo del meeting?
Ma che cosa vuol dire che una certezza è immensa? Non vuol dire certo una certezza a mia misura. Quindi non è una certezza che io possiedo, che domino, che costruisco, ma è piuttosto una certezza che mi prende, mi conquista, mi supera, e che in un qualche modo mi sfugge. È interessante l’idea di una certezza che mi sfugge… ma mi sfugge proprio perché è più grande di me! È questa la certezza che dissipa l’oscurità, non una certezza dalla quale possiamo trarre motivo d’orgoglio; è «immensa» una certezza che mi induce alla missione, e che mi spinge a prendere su di me il rischio di una esistenza pienamente vissuta, ricevuta e data.
Dove sbagliamo?
Nel fatto che spesso abbiamo della certezza un’immagine «minerale»: qualcosa di inerte e solido. Occorre invece ritrovare delle immagini viventi della certezza. La grande certezza è quella che viene a distruggere tutte le piccole certezze fatte a mia misura, per aprirmi a qualcosa che a sua volta mi butta nell’ignoto, ma anche mi dona un’ ebbrezza, un’esaltazione della vita, un’apertura all’incontro e alla comunione con ciò che mi supera.
Ieri è stato rappresentato in teatro l’adattamento di un suo testo (Job ou la turture par le amis). È una novità per lei? Che cosa le piace del teatro?
In realtà, la mia prima vocazione è stata la poesia. Ho iniziato facendo letteratura e poesia, la filosofia è venuta dopo. Ho sposato un’attrice, e chi mi ha portato nel teatro è stata innanzitutto mia moglie. Ho scritto il mio primo pezzo di teatro all’inizio del nostro matrimonio. l’amore per il teatro non è soltanto una concezione estetica, ma un dato che appartiene innanzitutto al mio vissuto. Il teatro è il luogo di una parola incarnata, di una parola che non e semplicemente concettuale ma che si fa vita. Ed è per questo che il teatro ai miei occhi ha in sé qualcosa di essenzialmente cristiano.
E tocca anch’esso il tema della certezza.
Sì, perché la certezza umana è una certezza drammatica. Come tale è apocalittica: sempre attraverso il dramma, attraverso la catastrofe, viene donata una rivelazione.