Il 19 aprile del 2005 il card. Joseph Ratzinger viene eletto al soglio di Pietro. «Dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Sono queste le sue prime parole alla città e al mondo. A cinque anni di distanza, ilsussidiario.net ha raccolto da Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, alla luce dell’immagine pubblica di Benedetto XVI, della sua guida della Chiesa e di fatti più o meno recenti, le sue considerazioni su questo primo lustro di pontificato.
In che cosa secondo lei l’attuale pontificato di Benedetto XVI esprime di più la personalità di Joseph Ratzinger?
Credo che la cifra principale sia quella di un’affermazione forte – anche se non priva di elementi problematici – dell’identità cristiana, in una fase storica che tende ad una secolarizzazione spinta e ad un annacquamento dei valori. Come Giovanni Paolo II è stato il grande papa del superamento della guerra fredda, della riconciliazione con le altre fedi, il papa che ha chiesto scusa per gli errori della Chiesa, papa Ratzinger vuole soprattutto rinsaldare le ragioni della fede. Egli stringe intorno a sé una Chiesa che per molti motivi, in una società materialista e priva di valori, tende ad avere un ruolo marginale.
Giovanni Paolo II aveva messo al centro del suo magistero il rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo; e Benedetto XVI?
Papa Ratzinger ha scelto di occuparsi di più di ciò che accade all’interno della Chiesa. Ma qui tocchiamo un punto delicato: in questo pontificato c’è stato l’errore, forse, di non aver saputo comunicare bene il «segno» pastorale di un papa teologo e della missione che egli ha legato al suo ministero. Quella di rilanciare il senso più profondo della fede per tutti coloro, innanzitutto, che professano la cristianità nel mondo.
E che soffrono l’attacco di un relativismo imperante.
Sì. Benedetto XVI non è un papa chiamato a regolare i conti con la storia, come il suo predecessore, ma a rispondere a una domanda chiave: quale sarà il ruolo della fede in una società globalizzata, dove assisteremo probabilmente allo scontro – ma speriamo anche all’incontro – con altre fedi che qualche volta mostrano di avere un’identità più forte della nostra? Poiché non è così, perché questa è solo un’apparenza, papa Ratzinger si pone il problema del grande rischio di una progressiva marginalizzazione della Chiesa nell’occidente secolarizzato. Le polemiche che riguardano il tema della pedofilia sono anche questo: segnano quanto sia percepita debole e marginale la Chiesa in alcuni paesi dell’occidente.
Secondo lei Benedetto XVI è un papa conservatore?
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È visto come un conservatore, ma in realtà ha avviato un confronto a tutto campo molto forte. Non chiude il dialogo, lo apre in forme diverse: con la scienza, con gli stati, con il mondo laico. La Chiesa di papa Ratzinger, forte della propria identità, dialoga senza alcun complesso di inferiorità e senza rinunciare a nessuna parte di se stessa. C’è che Benedetto XVI soffre l’handicap della percezione di un papa tedesco nelle opinioni pubbliche occidentali, soprattutto nel mondo anglosassone. Proprio per questo sarà interessante il viaggio in Inghilterra, per il rapporto con la chiesa anglicana e dopo la sua Lettera all’episcopato irlandese.
Joseph Ratzinger, il 19 aprile di cinque anni fa, stupì tutti quando scelse il nome di Benedetto. Cosa le suggerì questo fatto?
Innanzitutto rimasi molto colpito dalle sue prime parole, quando disse di essere «un umile servitore nella vigna del Signore». C’è lì dentro tutta l’umiltà di un papa teologo, di grandissima cultura, che scegliendo il nome di Benedetto, uno dei padri dell’Europa cristiana, dava un senso ancor più universale al proprio pontificato. Ovviamente la scelta del nome Benedetto comportava e comporta una continuità teologica e filosofica.
Dove stanno a suo modo di vedere le sfide che la Chiesa di papa Benedetto oggi si pone? Sul terreno della morale, della cultura, o della politica?
Certamente a papa Ratzinger interessa un dialogo costruttivo sul versante della morale, dei valori etici non negoziabili. Ma anche sul terreno della presenza sociale della Chiesa. E questo aspetto, a differenza del primo, è rimasto secondo me a torto un po’ in subordine. È un difetto che ho riscontrato nel dibattito sulla presenza cattolica nella nostra società.
Forse perché i temi etici sono quelli che riguardano immediatamente le libertà personali.
Senz’altro. Infatti siamo noi ad esserci soffermati sui temi legati alla bioetica, mentre nel magistero i temi sociali sono ugualmente centrali perché questa è una società molto individualista e l’individualismo tende a schiacciare la persona, a umiliarla, trasformandola in un oggetto o una merce. Ma in questi cinque anni Benedetto XVI ha sempre riaffermato il valore della persona non al di fuori, ma all’interno di un’istituzione: la famiglia, la società, la comunità più ampia.
Come si sta sviluppando secondo lei il rapporto della Chiesa con la società italiana? Un recente editoriale del Corriere parlava di «Italia anticristiana».
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C’è oggi un nichilismo imperante che spesso e volentieri dà contro il cristianesimo. Anche nella polemica sul tema, purtroppo triste, della pedofilia c’è una parte della società italiana che assiste da spettatrice non interessata, qualche volta annoiata e qualche volta compiaciuta, a questa disputa che vede il papa e la Chiesa «accerchiati», per molti motivi. Naturalmente, anche per errori commessi.
Che idea si è fatto dello scandalo pedofilia?
La Chiesa sta pagando gravi errori che ha commesso nel coprire alcuni reati, che però questo papa ha riconosciuto, a differenza di quello che è avvenuto in passato. Anzi, questo è il papa che ha fatto della trasparenza sul tema della pedofilia un elemento di grande coraggio che va ad aggiungersi, direi, ai tratti salienti del suo pontificato. Cosa che altre istituzioni non hanno fatto. C’è stato, aggiungo, uno sforzo di trasparenza che francamente alla Chiesa non è nemmeno dato. La Chiesa ha un ruolo diverso: non è chiamata a perseguire i reati e non ha un compito di magistratura civile. Abbiamo mai incolpato le istituzioni laiche e repubblicane di reati personali commessi da coloro che stanno in Parlamento, o che ricoprono pro tempore la funzione di presidente del Consiglio o della Repubblica?
È difficile valutare ora quale potrà essere la portata di questo scandalo per il futuro della Chiesa. Qual è la sua valutazione?
Guardi, qui c’è un rischio: che il papa che ha fatto la maggiore opera di trasparenza in tema di pedofilia, passi alla storia come il papa legato a questo scandalo. Sarebbe davvero una grave ingiustizia. La Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda ha un peso rivoluzionario. La Chiesa è chiamata al risarcimento e sta facendo la sua parte, ma sono convinto che sia anche oggetto di una crociata, alimentata soprattutto nel mondo anglosassone e americano dettata da pregiudizi e interessi. Penso con sofferenza alla quasi totalità dei preti, che fanno il proprio mestiere ma che probabilmente, oggi, escono di casa con un timore in più. Non è giusto, perché la pedofilia riguarda tutta la società.
Julián Carrón, in una recente lettera a Repubblica, ha detto che «nulla sembra bastare»: né a ripagare le vittime del male subìto, né a colmare la nostra esigenza di giustizia. Ecco perché il papa, dice Carrón, ha detto che solo Cristo può colmare il nostro bisogno.
Quello che dice Carrón è vero, non basta la sanzione civile e penale, c’è una sanzione ben più elevata che per un cristiano è quella del giudizio di Dio. Per la Chiesa lo scandalo pedofilia è una grande prova, e l’inizio di una penitenza. È conscia della gravità di quello che è stato commesso, e la sofferenza l’accompagnerà per molti anni ancora. Non a caso il papa ha detto che una colpa del genere non è prescrivibile. Essa richiederà una lunga decantazione, e un’elaborazione personale e collettiva interna alla Chiesa.
Lei parla di una prova. Che cosa intende?
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Credo che lo scandalo aiuterà la Chiesa a risollevarsi e a guardare con occhi nuovi alle sfide della modernità, che apparentemente la vedono così debole ma che poi in realtà, come è accaduto per esempio con il Concilio Vaticano II, sono state affrontate e vinte. Quando sono state rifiutate, com’è avvenuto con il modernismo, si sono aperti per la Chiesa anni molto bui, e i recuperi sono stati lenti, faticosi e difficili.
Come la figura di Benedetto XVI interroga la sua personale coscienza laica?
La interroga su quelli che sono i confini della nostra piccola e personale missione di cattolici laici nella vita quotidiana. Io credo che si debba essere consci dei propri limiti, e che si debba rifuggire da quelle che probabilmente sono state in questi anni alcune degenerazioni dell’essere credenti, come quella forma di estremismo che va sotto il nome degli atei devoti. Molto negativa, a mio avviso, soprattutto nel ridurre lo spazio a disposizione del laicato cattolico. Mi interroga poi sul senso della laicità positiva, vittima di un errore culturale che l’ha schiacciata su posizioni laiciste.
Quale figura di cattolico si sente di auspicare?
Un cattolico più aperto, che ascolta di più, forte delle proprie convinzioni, ma impegnato a difendere di più i valori cattolici della solidarietà e della comprensione della società. Un cattolico meno «crociato» e più pastore.
Il suo bilancio?
Insisto su di un aspetto che mi sembra forse il più significativo del messaggio pastorale di questi cinque anni di pontificato. Con Benedetto XVI l’identità cristiana dialoga e rispetta le altre identità, dalle quali chiede a sua volta di essere rispettata. L’essere cristiani non vuol dire essere depositari di una serie di colpe storiche, cosa che qualche volta mi sembra di notare anche nella pubblicistica italiana, ma è qualcosa che incarica di una serie di responsabilità, nel rispetto e nella solidarietà degli altri. E che contempla non soltanto l’affermazione dei valori non negoziabili, ma anche di una serie di valori sociali e morali, altrettanto necessari un mondo sempre più distante, egoista e materialista.
(Federico Ferraù)