Ha 11 anni, vive a Mariglianella. In un giorno d’estate, un pomeriggio caldissimo del 6 agosto, ha visto uccidere il padre. Colpi di pistola, papà che si aggrappa al cancello, sotto casa sua, un uomo con gli occhiali scuri si avvicina, spara più volte, al collo, al fianco, lo stronca a terra, poi fugge. Due testimoni stanno a guardare. Le figlie, 13 e 11 anni, appunto. Una scioccata, muta per il terrore. La più grande tace per proteggersi, e per poter raccontare. Lucidamente spiega agli inquirenti increduli, agli psicologi, che l’assassino sarebbe un amico di famiglia, un pregiudicato, addirittura il padrino del fratello più piccolo. Eccome se lo riconosce, l’ha visto un sacco di volte. E’ stato lui, è certissima, le basta rivederlo in una foto.
La vicenda agghiacciante dell’omicidio ennesimo di questa periferia di Napoli, così crudele e malata, si risolve in soli tre giorni grazie al coraggio di una ragazzina. Che non ha paura di scrivere su Facebook: “Meglio la zampa di un animale che stringere la mano di un assassino”. Che non ha ceduto alle conseguenze naturali di un trauma insostenibile, assistere impotente alla morte di un proprio caro, a pochi passi, da parte di un amico, quasi un parente. Un delinquente. Come pure doveva esserlo il papà, che commerciava in loschi traffici con lui. Come chissà quanti altri volti e figure familiari alla sua infanzia, presenze normali, magari tollerate o protette, in una terra che pare essere abbandonata dal senno e dalla pietà. E invece la forza di una bambina scardina rassegnazione e fatalismo. I bambini sono innocenti, non hanno colpe, sono quasi sempre vittime. Se sono colpevoli, è per colpa di adulti che li rendono tali. I bambini dicono la verità. Se sono bugie, è per nascondere paure, o per sotterfugi ingenui, o per condiscendenza verso malignità più grandi. I bambini non sono buoni in sé, cominciano in fretta a poter essere cattivi, ma sono certamente più buoni dei grandi.
I bambini ci guardano, forse con meno attenzione della piccola orfanella napoletana, ma comunque ci osservano, e se non hanno voglia di parlare, è sempre per paura, che diventerà disprezzo o indifferenza, quando non imitazione pericolosa, omologazione. A questo siamo abituati, di solito: figli che difendono padri e fratelli criminali, ragazzini che insultano e aggrediscono le forze dell’ordine, i professori, chi opera per la loro sicurezza e tutela, che non riconoscono come autorità, poiché succubi di un’altra “autorità”. Che uccide, ed è più temibile.
Piccini allevati da donne di camorra, ’ndrangheta o mafia che imprecano e sbraitano come prefiche contro poliziotti e giornalisti, intralciando in ogni modo l’accertamento della verità. La cosca è la verità. La “famiglia” è la verità, ovvero una morsa asfissiante, un labirinto inestricabile, nella loro idea, una consorteria omertosa e infetta, che atterra libertà e crescita. Eppure, i bambini sanno stupirci, sempre. Perché guardano stupiti, e vedono tutto, e se non lo tengono in cuore, che diventi incupito e oppresso, sanno illuminare il mondo.
Quella piccina non conosce omertà e soggezione, anche se non è vissuta in una realtà e in una famiglia esemplare. Anche se non ha adulti degni della sua maturità (la mamma, dov’è? Non ha parlato, non parla, almeno per difenderla? E le donne del quartiere, la considereranno un’infame, da guardare a vista, repellere, o una giovane eroina da mostrare a modello ai propri figli?). La piccina ci insegna che non siamo destinati al male, se la società è malvagia. Rousseau aveva torto. Abbiamo testa, coscienza e cuore, e tocca a noi, liberamente, metterli in gioco. Cambiare si può. Essere diversi si può. Alzare la testa si può.
Ora tocca a noi, mondo adulto che deve farsi carico di quella ragazzina, della sua educazione, della sua sicurezza e felicità. Non lasciamo che la sua voce taccia, che sia inghiottita dal silenzio complice, tacitata dall’impossibilità ad emergere, a far dono a tutti della sua potenza. Che i suoi occhi pieni di dolore non si spengano, per rassegnazione e solitudine. Non basta applaudire al suo gesto, non bastano onorificenze e interviste. Bisogna averne cura, consolarla, darle speranza.