Tornano il anciatori di sassi contro le auto, come fu negli anni Novanta. Non se ne parlava finché l’altra sera una donna, Nilde Calderini, è morta, non colpita dalla pietra, ma stroncata da un malore per lo spavento. Così si scopre che nel 2016 sono stati registrati 85 casi, e nel 2017 siamo già a 63. E si scopre che molti, moltissimi fra i protagonisti di questi atti sono minorenni. E ora siamo tutti a chiederci: perché?
Già, perché? Perché un ragazzo lancia una pietra contro un’auto di passaggio? Perché un ragazzo si diverte — lo fanno in tanti nella periferia milanese, ho scoperto — a forzare le bici di Ofo e a buttarle nel naviglio? Perché i miei studenti — non tutti, grazie a Dio, ma tanti sì — non sono capaci di trattarsi se non a spintoni e a insulti?
Spiegava Ortega y Gasset, grande e trascurato filosofo spagnolo, in un libro degli anni Trenta del secolo scorso, La ribellione delle masse, che ogni generazione deve affrontare quella che lui chiama “una invasione verticale di barbari”. Sono i bambini, i ragazzi, i giovani, che esattamente come i barbari dell’epoca romana sono estranei alla civiltà. La civiltà non si trasmette col Dna: va comunicata, insegnata, consegnata. Pazientemente, senza scandalizzarsi, sapendo che è inevitabilmente un lavoro paziente.
La civiltà è una cosa complessa, è una conquista delicata, si regge su un equilibrio precario, sempre in lotta con quella parte di noi — di ciascuno di noi, non solo dei ragazzi: come siamo, noi adulti, in macchina o allo stadio o alle partite dei nostri figli? — che viene della bestia, e come le bestie vorrebbe farsi giustizia da sé, vorrebbe applicare la legge del più forte e dell’occhio-per-occhio.
Consegnare le conquiste della civiltà alle nuove generazioni è un lavoro, e non un lavoro facile. Richiede — credo — almeno un paio di condizioni. La prima è la certezza che la civiltà sia una cosa buona, preziosa, che serve — con tutti i suoi limiti — a essere più umani. Adulti che non fanno che lamentarsi del mondo in cui vivono, che non perdono occasione di dire, esplicitamente o indirettamente, ai ragazzi che il mondo in cui vivono è malvagio, che la loro civiltà è corrotta, come possono sperare di essere credibili quando poi i ragazzi tirano le conseguenze, e contro quel mondo e quella civiltà tirano i sassi? La seconda — dico un’ovvietà, ma a volte serve ripetere anche quelle — è la certezza che anche i ragazzi di oggi, esattamente come quelli di ieri e dell’altro ieri, sono buoni. Sono buoni non nel senso banale che si comportano bene, ma nel senso profondo che hanno un cuore buono, un cuore che desidera il bene, che è fatto per il bene. E allora vale la pena chinarsi su di loro, sulla loro “inciviltà”, e provare a far loro compagnia.
Teoria, dirà qualcuno? Quest’anno i casi della vita mi hanno portato a insegnare nell’ora alternativa a quella di religione in un istituto tecnico della periferia milanese, i miei alunni sono quelli di cui sopra, sono loro che mi hanno raccontato delle bici nel naviglio. Ascolto con loro le loro canzoni, rap disperati di gente che si scaglia contro tutti e contro tutto, “l’unico amico sono i soldi” canta uno di questi. Provo a stare con loro, a raccogliere le loro storie, a dir loro — con le parole, gli sguardi, i fatti, chissà se ci riesco — che sono belli, che valgono. Qualcuno forse comincia a guardare questo strano insegnante con una mezza curiosità. Se voglio che non tirino anche loro i sassi dai cavalcavia non posso che cominciare da qui.