Lo scorso anno, nel messe di agosto, passai con mia moglie e alcuni amici una settimana nella zona dei Monti Sibillini, tra Ascoli e Fermo, e per tutta la settimana esplorammo quella terra meravigliosa, tra Marche Umbria e Lazio, scoprendo cose che mai avremmo immaginato.
Passammo anche una giornata a Norcia. Nei pressi della città di San Benedetto notammo una bella chiesetta che però non riuscimmo a visitare perché la persona che avrebbe dovuto aprircela non si trovava.
Stamattina ricevo dalla mia amica Cicci, che era del gruppo, questo messaggino whatsapp: “Nico Cri Ric Luc, vi ricordate la piccola chiesa di S. Salvatore a Campi di Norcia, quasi sulla strada, che non eravamo riusciti a vedere perché chiusa, con quei due rosoni sbilenchi e la portina? E’ quella che è crollata…”
Ci eravamo promessi di tornare a vederla, adesso non potremo farlo mai più. Il terremoto ci ha inferto ferite più grandi, comunque c’è anche questa, e francamente fa un po’ incazzare. Viene da pensare che, una volta rimessa tutta a norma, questa terra — questo miracolo tra natura e cultura, arte e paesaggio, doni di Dio e vita umana — perderà il suo antico volto. Il paesaggio resterà identico, ma sarà come essere in un posto qualsiasi. Rischia di perdersi quella cosa pazzesca, inimmaginabile, che si chiama Italia.
Tutto questo non mette di buonumore. Viene in mente un antico abitante di queste terre, il recanatese Giacomo Leopardi, il quale, constatato che il “natìo borgo selvaggio” non rendeva possibile una vita umana, se ne va sul suo colle per poter vivere quella vita almeno “nel pensier”. Come dire: questa terra, questo mondo non presenta nessun significato che valga la pena di verificare, e solo separandoci da esso possiamo sperare in una, sia pur piccola, salvezza.
A questo punto, però, mi viene in mente anche Manzoni, con il grido che l’Innominato getta dalla finestra, dopo la sua notte assai poco soddisfacente, alla vista della folla festante che, tra rintocchi di cento campane, si reca all’incontro con il Card. Federigo Borromeo. “Che c’è d’allegro in questo maledetto paese?”
Il giudizio dell’Innominato non sembra molto diverso da quello di Leopardi: tra il “borgo selvaggio” e il “maledetto paese” la distanza è breve. La differenza sta in questo, che il vecchio filibustiere, a differenza del geniale poeta, ci trova qualcosa di “allegro”.
In altre parole, in questo mondo un po’ bello e un po’ brutto, che (magari) rischia di diventare ancora più brutto, c’è qualcosa per cui vale la pena vivere, e questo mondo — non un altro, compreso il mondo dei sogni o quello della fantasia, ma proprio questo — può essere, così com’è, il luogo di un’esperienza che può essere straordinaria ma che è innanzitutto un’esperienza possibile. Qui, ora si può vivere.
Il bello è che da principio l’Innominato non sembra molto contento di tutto questo: lui (dopo una simile notte) pensa che vivere non valga la pena, e sono tutti quei poveretti, che lui non ha mai trattato bene, che lui disprezza o al massimo compatisce per la loro povertà — ebbene, sono loro a ricordargli che vivere da uomini è possibile, anche qui, anche nel disastro, anche quando ci prende l’amarezza per avere perduto qualcosa di caro.
Io credo che in questa indomita positività, figlia di una fede piena di ragionevolezza, stia la radice umana più profonda di questo miracolo che si chiama Italia. Che resta un miracolo anche quando ci fa venir voglia di andarcene, anche quando la natura sembra volersi accanire contro di lei e contro la sua gente.