Il giudice francese Chaterine Monbrun ha ordinato di riattivare immediatamente la nutrizione e l’idratazione di Vincent Lambert, un 37enne in coma, dopo che i medici avevano deciso di sospenderla. L’equipe dell’ospedale dell’università di Reims aveva deciso di fare morire l’uomo di sete, arrivando a giustificarsi spiegando che l’uomo sembrava acconsentire alla sospensione dell’idratazione. La madre, il fratello e la sorella si sono però opposti e l’hanno avuta vinta. Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Francesco D’Agostino.
Qual è il significato del caso di Reims?
Di fronte a notizie di questo tipo e a intenzioni che si manifestano da parte di chi è vicino al malato, come in questo caso la moglie, certe reazioni nascono dal fatto che si vuole giudicare la qualità della vita. Si pretende così di trarne come conseguenza il diritto o il non diritto di mantenere in vita un malato quando è in condizioni così tragicamente precarie.
Quali decisioni vanno prese in circostanze come quella in cui si trova Lambert?
Nessuno può davvero giudicare la qualità della vita di un altro, sia pure che si tratti di un malato così grave. Altra cosa sarebbe se la diagnosi fosse stata di morte cerebrale, o se avessimo la certezza che il malato era sottoposto ad accanimento terapeutico. In questo caso alimentazione e idratazione sono normali tecniche di sostegno vitale, e non certo tecniche mediche altamente sofisticate, costose o invasive.
Quali sono le evidenze scientifiche sulla situazione del paziente francese in coma?
Al di là di una riflessione sulla specificità del caso, che è complicato e richiederebbe un’attenzione molto sottile a tutte le variabili cliniche della situazione, la notizia ha un suo interesse perché dimostra che inevitabilmente ciascun atteggiamento che concerne un giudizio sulla qualità della vita porta in un vicolo cieco. Qui non si tratta di condannare una parte ed esaltarne un’altra, perché probabilmente anche coloro che volevano sospendere l’alimentazione erano convinti che questa loro decisione fosse legittima e magari doverosa. E’ il presupposto a partire dal quale si arriva a queste decisioni che è inaccettabile.
Sempre più spesso i tribunali devono decidere di casi come questo…
Bisogno riconoscere, sia pure con immensa tristezza, che ci sono casi estremi in cui solo l’accettazione della sofferenza di una vita così gravemente colpita ci può portare a comportamenti dotati di una certa coerenza e di una certa rassegnata serenità. Altrimenti scoppiano litigi, controversie, ricorsi al giudice, che in qualche caso potranno anche darci soddisfazione, perché il tribunale può anche giudicare secondo la nostra visione soggettiva, ma può anche capitare che il magistrato possa decidere nella prospettiva esattamente opposta alla nostra, finendo così per trovarci in una situazione inaccettabile.
E quindi?
Prima di ricorrere al giudice, sarebbe meglio accettare come principio il rispetto della vita, anche tragicamente malata. Questo rispetto implica un’accettazione della sofferenza estrema di queste persone, nell’attesa che venga anche per loro quella forma di liberazione che è la morte. Ma non una morte programmata e garantita da cavilli giuridici o da ricorsi giurisdizionali, bensì come un evento naturale che fa parte della vita.
Che cosa ne pensa del fatto che, secondo i medici, Lambert sembrava acconsentire alla sospensione dell’idratazione?
E’ un’annotazione grottesca. Abbiamo immense difficoltà a capire la volontà autentica di un soggetto normalmente capace, magari portato sotto processo in stato di confusione mentale.
Come possiamo presumere di fare emergere la volontà autentica di pazienti in situazioni così drammatiche?
Sono tutte foglie d fico, non diverse da quelle esibite come prova per il caso di Eluana Englaro. Testimonianze di amiche raccolte dieci anni prima avrebbero dovuto aiutare i giudici a capire la volontà attuale di Eluana. Non funziona così, è un modo burocratico e cavilloso di cercare di gestire queste situazioni. Rispettiamo la vita e chiudiamo il discorso.
(Pietro Vernizzi)