Ha cambiato il papato come nessun altro pontefice aveva fatto prima: quel suo ritirarsi — più un ritrarsi che un fuggire dalla sua responsabilità — ha reso la Chiesa un’istituzione meno d’acciaio, più umana. Esattamente cinque anni fa, l’11 febbraio 2013, papa Benedetto XVI annunciava le sue dimissioni dall’ufficio di Papa. Con una frase pronunciata nella lingua latina — “Perché una cosa così importante si fa in latino” dice nel libro Conversazioni ultime — il mondo ebbe modo di conoscere l’altra faccia di un Papa così intelligente da sorprendere il mondo con un gesto che alla maggioranza non fu possibile anticipare. Il dibattito s’accese al punto da infiammare l’agone pubblico come poche altre gesta prima di quella: parole come fuga, incapacità, complotto, ricatto si arrogarono il diritto di cittadinanza nel dibattito successivo. A superare la loro forza d’urto, ancor oggi impetuosa, fu solo un’immagine, quella del 28 febbraio 2013: un elicottero bianco s’alzava in volo dall’eliporto di San Pietro, col rumore delle pale rotto solamente dal suono delle capane di Roma. Benedetto XVI, una delle menti più lucide dell’ultimo secolo, stava uscendo in punta di piedi dalle luci della cronaca: “Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte”. Parole sue, condite con una freschezza tipica di chi ha abitato a lungo il bordo del mistero, frequentando Dio con tutti i suoi arcani segreti. Se ne usciva con quella stessa amabilità con la quale s’era annunciato all’indomani della morte di Giovanni Paolo II: in punta di piedi, sottovoce. Con la sua fine teologia, ha insegnato al mondo che è tipico del mistero di Dio agire in maniera sommessa, bussando alla porta lentamente: chi lo frequenta, lentamente ne prende la forma, le fattezze. L’alta statura.
Ad un lustro di distanza, la forza d’urto di quel gesto è rimasta intatta. Pure in quei giorni si stava vivendo un intenso dibattito politico fatto di litigi e contese, di ricatti e vendette. Anche allora, esattamente come in questi giorni, il potere si era fatto arrogante, le parole si erano impoverite al grado massimo dell’insulto, il concetto di “promessa” si era fatto sinonimo di fumo in circolo. Per questo colpì quel suo gesto: non si è mai condannati al potere — sono sceso in campo per, la gente mi chiede di ricandidarmi, sento l’obbligo morale di arginare l’avanzata, ecc. — ma l’unico potere ammesso è il servizio: quando mancano le condizioni giuste per poterlo esercitare correttamente, si scende dalla giostra per cedere il passo. Per rimanere al servizio in un senso più profondo, più intimo, senza i compiti del padre: “Anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete”.
Parole troppo fini per delle menti ancor oggi intente a non fiutare, a rifiutare la grandezza di quella sua rinuncia, di quell’evangelico diminuire per lasciare che l’altro cresca, che la storia non rallenti. Che la Chiesa prosegua sospinta dallo Spirito. Fu quel gesto di rinuncia a rendere visibile che lo Spirito ha le mani in pasta nell’oggi della Chiesa. Dalla dolcezza amabile del Papa emerito alla dolcezza d’impeto di Papa Francesco: cambia l’aggettivo, lo stile rimane. Nella Chiesa è l’amabilità dello stile la vera ragione della speranza.
Troppo intelligente il papa-teologo per non fiutare l’ovvia manomissione di quel suo gesto: “Naturalmente mi chiedevo anche cosa avrebbe detto la gente, che figura ci facevo. Nella mia casa era un giorno triste”. Non per questo mutò idea: quando il frutto è maturo va colto. Intravedere l’attimo esatto della maturità è la vera sapienza degli intelligenti: un attimo prima il frutto è acerbo, un attimo dopo il frutto è marcio. La rinuncia di Benedetto XVI è l’annuncio di Francesco: dopo un lustro di storia sacra, c’è ancor chi si diletta a metterli contro, a giocarli sulla scacchiera come fossero fanti-cavalli-re. Loro, umili servitori, stanno fermi al loro posto: c’è anche una misericordia intellettuale che va aiutata a crescere.