“Mi stanno costringendo a sposare un uomo che ha dieci anni più di me e io di anni ne ho solo quindici. Non voglio, non lo amo, non lo conosco nemmeno e per questo ho già provato a suicidarmi tagliandomi le vene”. Così, più o meno, è stata la drammatica telefonata che una giovanissima torinese di origine egiziana ha fatto al numero dell’emergenza infanzia (il 114) dopo che un’amica, una compagna di classe, l’aveva spinta a parlare.
Il matrimonio combinato e deciso dalla sua famiglia le era caduto addosso al primo anno di liceo. Primo e ultimo, secondo mamma e papà. Perché per una donna musulmana non è necessario studiare. Perché a lei avrebbe pensato la famiglia di lui: ci avrebbe pensato per tutto. Gente sconosciuta, di cui non sa nulla, che vive in Egitto. Dopo che ha scoperto che l’abito rosso nuziale era già stato confezionato e gli inviti per il banchetto erano stati diramati, la ragazza non ce l’ha più fatta e si è confidata con l’amica. La polizia è intervenuta, la legittima autorità italiana ha tolto la figlia alla patria podestà e ora la ragazza sta in comunità e sta bene.
Quando hai quindici anni e sei destinata a sposare uno sconosciuto di venticinque il credo religioso non c’entra. Non c’entrano parole come cultura e disagio. La parola da usare è una e si chiama violenza familiare. Dei genitori. E, se quell’orrore di unione si fosse mai celebrata, si sarebbe chiamata pedofilia. Dimentichiamoci altre parole. Vorrei non chiamare in causa i conflitti religiosi.
A quindici anni sei poco più di una bambina e hai diritto a sognare il volto di un futuro amore. Hai diritto di vivere innamoramenti fatti di vergogne, di rossori, di whatsapp, di snapchat, dei primi baci, dello speriamo che mi scrive. Con un lui o una lei che più o meno ha la tua età. A quindici anni essere musulmani non può ledere il diritto che tua madre e tuo padre ti seguano in silenzio trepidante e con complice custodia. Nei tuoi primi passi. Nei tuoi primi sentimenti così importanti per il resto della tua vita, non solo per i tuoi quindici anni. Così delicati. Se la tua religione ti rovina tutto questo, se non ti permette di vivere il tuo amore e la tua libertà e quel fiore delicato che sei tu, la tua religione è sbagliata. O ha qualcosa di sbagliato. O è sbagliato chi te le insegna. O tutte queste cose insieme. La tua religione, la tua tradizione, non può essere un mostro che minaccia di spedirti via dalla tua città, sotto il potere di un uomo che non conosci, di una famiglia che ti plagerà affinché le catene di un’unione che non vuoi ti stringano, ti costringano e ti facciano morire. Dentro e fuori.
Lasciamo fuori da questa tragedia parole come Dio, amore, matrimonio, famiglia. Perché sono parole che non c’entrano. Usiamo le parole giuste per chiamare questo orrore con le parole che sono giuste a tutte le latitudini: si dice potere, si dice violenza, si dice pedofilia. E poi guardiamo al piccolo infinito gesto d’amore che salva tutto e che fa crollare l’impero degli adulti, dei grandi. L’amicizia di una compagna di classe. Un cellulare. “Ti ascolto amica mia: che dolore. Chiama. Telefona al 114. Prendi il mio cellulare e chiedi aiuto. Non mi devi nulla. È la tua vita. Te lo presto”. E i servizi sociali e la preside portano via la futura schiava da una famiglia che non è mai stata una famiglia. Ora, in comunità, in classe, con le sue amiche, è protetta. È salva. Forse potrà cominciare a sognare il piccolo grande amore che è quello fatto a misura della sua età. Lontano mille miglia da quell’incontro dove papà e mamma la volevano violata, violentata, privata di ogni dignità per la falsa fede in qualcosa che può essere tutto quello che volete tranne che Dio. Tranne che Amore.