Magdi Allam, l’altro giorno la stampa ha messo in luce una pratica che in Inghilterra avviene già da un po’ di tempo, ossia la possibilità per alcuni arbitrati famigliari musulmani di ricorrere a una corte islamica: qual è la sua opinione in merito?
È sicuramente un ulteriore passo all’indietro in una deriva etica del multiculturalismo che, avendo fatto venir meno, in linea di principio, un comune collante identitario e valoriale per l’insieme della società, perviene alla realtà di un doppio binario giuridico che dispone le legge islamica valida per i musulmani e la legge dello Stato valida per i non musulmani. Quindi si riconosce ai musulmani una specificità anche su questioni giuridiche che comportano una concezione diversa della persona, della donna, della famiglia, della società e della vita.
Si tratta di un orrore giuridico che accentua sempre di più la deflagrazione e la disgregazione della società britannica dal suo interno ed è il risultato della cecità di chi ha perseguito finora una concezione relativista della vita, sottomettendosi all’islamicamente corretto, e ispirandosi a una concezione buonista della convivenza, che è di fatto il contrario del bene civile. In Inghilterra si sta proseguendo nel suicidio della propria identità e della propria nazione.
Secondo lei il fatto che tale consuetudine si sia radicata in Inghilterra può essere circoscritto al sistema giuridico britannico o è sintomo di una tendenza destinata a prendere piede in tutto il nostro Continente?
L’Inghilterra è il Paese che più di ogni altro si è spinto avanti nel perseguimento del modello multiculturalista e si ispira a quella che è stata la politica coloniale della Gran Bretagna. Il Regno Unito ha tradotto al suo interno una prassi che veniva perseguita nelle sue colonie con il risultato di aver creato nella sua realtà sociale una serie di ghetti dove vivono persone appartenenti prevalentemente alla stessa etnia o alla stessa confessione e che percepiscono se stessi come un’identità differenziata.
Questo è un presupposto che poi, inevitabilmente, porta all’implosione sociale. Un’implosione che i britannici hanno toccato con mano il 7 luglio del 2005 quando quattro cittadini inglesi si fecero esplodere nel centro di Londra. Ma evidentemente non c’è limite alla cecità e si immagina che pur di salvarsi dai terroristi taglia gola ci si possa affidare ai terroristi “taglia lingua”, il cui messaggio è: «se volete avere salva la pelle dovete sottomettervi alle leggi islamiche e alle condizioni islamiche perché queste leggi sono un qualcosa che appartiene a uno specifico religioso imprescindibile. Noi vi garantiamo la convivenza pacifica se voi ci permetterete di legiferare secondo la legge islamica».
Insomma si tratta di una resa e di una follia perché stiamo parlando della Gran Bretagna non dell’Arabia Saudita, ed è una degenerazione etica e giuridica che certamente potrà avvenire altrove in Europa dove l’assenza di un modello di convivenza che si fondi sul rispetto dei valori e delle regole dell’identità autoctona europea, che ha le sue radici profonde, nella fede, nella cultura e nella tradizione giudaico cristiana, porterà anche altrove a questa deriva.
A proposito invece di quanto accaduto recentemente a Milano, ossia l’omicidio di un ragazzo di colore ad opera di un padre e di un figlio titolari di un bar, si sono sentiti allarmismi relativi a un ritorno del razzismo nel nostro paese. È davvero così oppure si tratta semplicemente di una strumentalizzazione ideologica che non aiuta ad affrontare seriamente il processo di integrazione degli stranieri?
Per quello che riguarda questo episodio specifico io credo che sia doveroso attendere l’esito degli accertamenti che verranno fatti. Perché purtroppo quello che ci dà in pasto la stampa o la televisione è prevalentemente mistificazione della realtà, quindi in assenza di dati oggettivi è impossibile poter maturare delle valutazioni. È invece vero che in Italia manca un livello di convivenza sociale che da un lato garantisca la sicurezza assoluta per gli autoctoni e dall’altro favorisca l’integrazione.
Con quest’ultimo termine non si deve intendere qualcosa che porti con sé solo diritti e libertà agli altri, ma ci si deve basare su un percorso vincolante in cui i diritti e doveri, libertà e regole, devono essere affermati e rispettati in modo paritario. Questa dimensione è certamente carente in Italia e l’assenza di questa cultura dei diritti e dei doveri, fa sì che si ingeneri facilmente l’arbitrio. Un fenomeno che porta da un lato ad atteggiamenti illegali da parte di chi individua nell’Italia una sorta di landa deserta dove ognuno può arrivare e fare quello che vuole e, dall’altro, purtroppo ad atteggiamenti illegali, xenofobi e razzisti da parte di italiani che non si sentono adeguatamente tutelati dalle istituzioni. Ribadisco che non sto parlando di questo caso specifico, ma di un contesto più generale.
Qual è, a suo avviso, la strada da percorrere per una vera integrazione?
Occorre affermare con chiarezza e con determinazione il primato di quei valori, di quelle regole e di quelle identità che sono il fondamento della civiltà e società italiana. Bisogna divenire capaci di affermarli ed essere pronti a difendere questo insieme di consuetudini culturali. Devono essere gli italiani stessi a ergersi a difesa di un modello credibile e rispettabile di valori e di regole ed esigere che gli altri facciano altrettanto. Noi dobbiamo partire dai noi stessi, occuparci della fragilità interiore dei nostri concittadini. Questa è l’unica strada percorribile per affermare un’effettiva convivenza. È un discorso che ricalca in modo fedele quello che avviene all’interno della famiglia. Senza regole la convivenza salta, si ingenerano delle tensioni che portano a conflitti, violenza, e quant’altro.
Quello che è vero nel microcosmo è tale anche nel macrocosmo.