Carlo Petrini, presidente di Slow Food che intende riportare l’alimentazione al suo intrinseco valore culturale sradicandola dall’idea di “contrattempo” in cui è relegata dai ritmi moderni, è intervenuto in merito alla questione del latte cinese dandoci un parere sulle cause e le possibili ripercussioni del tragico fenomeno nel nostro Paese
Dottor Petrini, quali sono, a suo avviso, le cause di questo disastro del latte in Cina?
Nel sistema alimentare cinese non esistono seri controlli sulla produzione o, quantomeno non ne esistono di così seri come quelli che riguardano le attenzioni che nell’Europa Unita vengono operate nei confronti di produttori di piccola scala e di grande scala. Questo è il motivo principale per cui si assistono a queste vere e proprie forme di inquinamento alimentare che sono a dir poco vergognose.
Come mai vige nella Repubblica Popolare Cinese questo sistema così disorganizzato e disonesto?
La Cina è un sistema in grande trasformazione ove si assiste a fenomeni di urbanizzazione massicci che generano grandi e nuovo esigenze. Va da sé che quando milioni di persone si spostano dalle profonde campagne di un Paese immenso verso le grandi metropoli della costa, si deve poi provvedere alla sussistenza di queste città. E questo viene fatto alla bell’e meglio. Purtroppo non ci sono sistemi di controllo e neanche di difesa dell’ambiente. È una situazione, quella in Cina, di estrema precarietà. Se pensiamo alla situazione ambientale e quindi anche alla degenerazione della qualità alimentare c’è quasi sempre da rabbrividire. Chiedo e pretendo quindi che le nostre autorità ci tutelino da tali porcherie almeno con lo stesso rigore con cui ci tutelano rispetto alle produzioni autoctone.
Quelli che lei denunzia sono difetti che riguardano solamente la Cina oppure si tratta di “leggerezze” ascrivibili anche ad altre nazioni?
Io non dispongo di un osservatorio internazionale, quindi non saprei elencarle punto per punto.
La cosa impressionante è che, ormai, queste commodity o questi acquisti avvengono, ovviamente, rispetto a paesi che hanno produzioni di larga scala e determinate dal fatto che in quei contensti la manodopera non costa niente. Allora va tutto bene, noi facciamo sì che tutto passi liscio fin quando poi non scoppia lo scandalo e, a questo punto, anche noi iniziamo a preoccuparci.
Perché, se derrate di questo latte in polvere in vario modo, magari anche attraverso prodotti dolciari, sono entrati nel nostro Paese, noi dobbiamo cominciare ad allarmarci serissimamente.
Quindi possiamo avere brutte sorprese cenando in un ristorante indiano o etiope?
L’Etiopia, che lei ha citato come esempio, non esporta materiale alimentare da noi. Invece la Cina esporta di tutto e di più e quindi dobbiamo porre una maggiore attenzione. Alcuni anni fa era scoppiato uno scandalo sui giocattoli. Ora in ballo c’è questo. Attenzione se la stessa Repubblica Popolare Cinese dichiara un numero 53.000 casi, ciò significa, chiaramente, che i contaminati sono assai di più.
Il consiglio che lei dà, sul Corriere della Sera, di evitare ristoranti cinesi in Italia parte dal latte o riguarda una preoccupazione generale?
Nel caso del Corsera c’è stata una forzatura del titolista. Non faccio una campagna contro i cinesi. Un titolo così forte non rispecchia le mie idee.
Cionondimeno io debbo dire che dobbiamo fare anche attenzione a questo tipo di ristorazione perché consiste in un’alimentazione estremamente a buon mercato dove spesso e volentieri si risparmia su una materia prima o sull’esecuzione dei piatti. Andando avanti così, prima o poi, qualcosa non funziona. Con tutto questo non dico «non mettiamo più piede in un ristorante cinese», però occorre scegliere con circospezione gli ambienti in cui si decide di andare a mangiare. Da qui a imbastire una campagna contro l’alimentazione cinese tout court ce ne passa.
E fin qui il cittadino, ma esiste una garanzia perché anche il ristoratore non sia sprovveduto nella scelta dei suoi fornitori?
C’è una linea maestra che consiste ritornare a dare valore all’economia locale e quindi anche all’agricoltura locale. In quel contesto occorre avere un rapporto diretto col produttore. Quando entro in affari con un produttore generalmente guardo anche come lavora e qual è la sua serietà.
Se invece per un ristoratore va sempre bene qualsiasi derrata che arriva da qualsivoglia parte del mondo, non c’è dubbio che egli favorisca il diffondersi di questi che non definirei neanche prodotti, ma “sottoprodotti”.