Con il congedo di ieri, avvenuto nel piccolo villaggio di Qunu, Nelson Mandela è stato definitivamente riconsegnato alla storia. Adesso che le emozioni scemano e gli uomini voltano pagina, è forse possibile dire qualcosa di non banale su una figura che ha indubbiamente segnato l’immaginario collettivo – così come esso è proposto dai media – di un’intera generazione.
Chi era Mandela? Un eroe sopravvissuto al carcere e all’odio razziale o un’icona montata ad arte per promuovere un sistema – quello sudafricano odierno – certamente non scevro da luci e da ombre? La saggezza e la prudenza ci dicono che i facili sospetti, così come i facili entusiasmi, ci portano sempre al di là della realtà. Qualunque osservatore onesto percepisce che nella narrazione del “mito di Mandela” certamente molte cose non sono state dette, altre sono state volutamente omesse, altre ancora potrebbero rivelarsi dannose per quello che Madiba è diventato per noi occidentali, così avidi di santi e di beati e così poco disposti ad ammettere che le grandezze degli uomini abitano sempre dentro le loro fragilità.
Mandela rimarrà sempre un mistero e tutta questa nostra brama di verità altro non è che l’ultimo tentativo della nostra mente di trovare in lui un particolare, una sfumatura, che possa avvalorare la nostra ideologia, la nostra posizione culturale, arruolandolo – o scaricandolo definitivamente – dal nostro esercito. Eppure ieri ci è stato consegnato un particolare tutt’altro che irrilevante: il sistema mediatico, sibillinamente, ha taciuto quello che era il segreto di Mandela, la sua vera forza.
Madiba, infatti, prima che essere un politico o un grande profeta – così come ci è stato dipinto – era un uomo di fede, un “xhosa” e da xhosa, ieri, è stato seppellito. L’icona del Sudafrica libero è stato salutato dal mondo con un sacrificio di un bue e con un rito religioso in piena sintonia con le verità ancestrali che i xhosa insegnano e trasmettono. Nelson Mandela era uno di loro, uno che aveva fatto di una parola – ubuntu – la bussola della sua stessa vita. Ubuntu, infatti, è il misterioso legame, un legame sacro e religioso, che tiene insieme il destino di tutti gli uomini. Per questo ubuntu ogni uomo è responsabile del proprio fratello, in forza dell’ubuntu ciascuno è chiamato a cooperare per il bene di tutti e nessuna storia e nessun vissuto possono essermi indifferenti.
Se noi togliamo tutto questo dalla biografia di Mandela, quello che ci rimane è un buon prodotto commerciale da vendere al banco della nostra ideologia. Mandela, invece, è stato semplicemente un africano. Un uomo che ha così vissuto la cultura e le storture del suo popolo da diventarne leader e punto di indiscusso riferimento. A lui potremmo legare mirabolanti discorsi sul razzismo, sulla democrazia, sui diritti umani, ma niente di tutto ciò potrebbe mai descriverne pienamente la complessità, il suo essere figlio di Dio.
Egli stesso si definiva così e questo, seppur dentro un’esperienza lontana anni luce da quella cattolica dell’occidente, era l’ultimo contenuto della propria autocoscienza, questo era ciò che Mandela diceva di essere. Egli era solamente un figlio di Dio che non ha avuto paura della propria grandezza, ma che ha usato della sua umanità per servire il suo prossimo, convinto che – in forza dell’ubuntu – quella non fosse una scelta, ma un dovere.
Insomma, un po’ per vergogna e un po’ per astuzia, il mondo ancora una volta ci ha tenuto nascosto il meglio di un uomo: il fatto che egli fosse, e si concepisse, “di Qualcuno” e che, a Questo Qualcuno, si sentisse profondamente legato da una storia di secoli che ora, attraverso di lui, mostrava tutta la sua forza e la sua dignità. Noi non sappiamo che uomo politico sia stato il primo presidente nero della Repubblica Sudafricana, non sappiamo neppure che ruolo abbia concretamente avuto nell’odio e nei veleni del suo paese, ma sappiamo che quello che oggi siamo qui a ricordare altro non è che la storia di un Io che ha concepito tutta la propria vita come dipendente da un Tu.
La storia, infatti, non si costruisce con le grandi decisioni, la storia non si decide neppure attraverso la pubblicità o il potere mediatico: la storia passa sempre attraverso il cuore dell’uomo, di ogni uomo. Quel cuore che Mandela ha giocato fino in fondo e che tutti noi, ogni mattina, siamo chiamati a lasciar ridestare dalla realtà per compiere ogni tratto da cui è composta la grande avventura della vita. Questo è stato Nelson Mandela. E questo è quello che noi oggi riconsegniamo alla storia. Desiderosi non di beatificare o di distruggere, ma di non perderci neppure un istante di un uomo che, comunque la si pensi, ha avuto il nobile coraggio di appartenere, di non considerare un peso o un terribile fardello il semplice fatto di essere stato generato e di avere, in cielo e sulla terra, un Padre, Uno a cui affidare ogni respiro della vita.