Quante cose abbiamo visto e vissuto questa estate, quante cose abbiamo ascoltato e ci hanno colpito! Eppure, non appena torniamo alla vita di sempre, e l’estate lascia il posto alle “solite cose” che si iniziano ad affacciare all’orizzonte, subito ci rendiamo conto che aver visto e sentito non è sufficiente. Basta infatti che ci sorprenda un dolore nuovo o che una circostanza della vita ci lasci con l’amaro in bocca che, immediatamente, ci accorgiamo di essere tornati dalle vacanze con tante cose da raccontare, ma con poche domande per la nostra vita. E allora riaffiora velocemente quella noiosa superficialità che credevamo esserci tolti di dosso almeno per un po’.
Ma basta un attimo di verità e di apertura di cuore che subito possiamo intuire qual è la posizione e l’atteggiamento che ci manca. A me, ad esempio, è capitato ascoltando le parole di Mike Tyson all’emittente americana Espn. L’ex pugile, convertitosi all’islam da qualche anno, ha dichiarato pubblicamente di essere ancora un alcolizzato e un tossicodipendente e di desiderare solo una cosa in questo momento, quella di essere perdonato.
Il perdono, umanamente, è una domanda che nasce da tre fattori: la consapevolezza di aver fatto “il male”, il dolore per questo male e il desiderio di un gesto che ripari, che aggiusti, la realtà.
Nell’islam il perdono è un gesto di clemenza di Dio. Egli è l’Assoluto che ha rivelato all’uomo la strada della salvezza, strada che ogni uomo può e deve perseguire nel rapporto con l’Altissimo e con il prossimo. Il perdono emerge, quasi a compimento della dinamica antropologica prima descritta, come un ulteriore atto di Dio che non permette al male dell’uomo di prevalere.
Nel cristianesimo non esiste, invece, un uomo buono. L’uomo è nella storia e, come tale, respira la fragilità di una creatura in cammino. Fatto di terra, l’uomo è un essere limitato che non può salvarsi da solo e che non può “mettere in pratica da solo” la Legge di Dio. Per questo il Verbo di Dio si è fatto carne: perché l’uomo non fosse aggiustato, ma amato.
Quello che manca all’uomo, a me, non è un’aggiustatina o una nuova consapevolezza psicologica: ciò che manca all’uomo è l’amore. Cristo è l’Innamorato dell’uomo, Colui che è capace – donando il Suo Spirito – di dare all’uomo il Suo modo di amare e di vivere la vita. Il peccato, infatti, non è uno sbaglio o un errore, il peccato nel cattolicesimo è smettere di guardare le cose (e se stessi) come le guarda Dio.
Le parole di Tyson sono le parole di un uomo che mendica amore e che si appella alla clemenza di un Dio misterioso e ignoto, senza sapere se quella clemenza sarà davvero ottenuta. I nostri gesti, a volte, sono gesti che raccontano gli stessi dubbi: vediamo tante cose, offriamo a Dio e alla Chiesa tante performance, ma − alla fine − ci sarà qualcuno che ci ama? La nostra vita − essendo dubbiosa sull’amore − rischia su tutto ma non scommette mai su Dio.
Così tutto rimane, alla fine, nelle nostre mani e la violenza − sottile o dirompente che sia − emerge come l’unico modo per ottenere dal prossimo un po’ di giustizia e di pace. Per questo, più passano le ore, più mi convinco che tutti, Assad e i ribelli siriani, i membri della giunta militare egizia e i Fratelli musulmani, Berlusconi e Letta, i miei amici e i miei confratelli, io stesso e il buon Tyson, abbiamo solo bisogno di saperci amati gratuitamente da Uno che sa qual è il Bene della nostra vita.
Magari sembra assurdo, eppure questa consapevolezza è l’unica cosa da chiedere in questo tempo così strano e difficile. È da essa che dipende tutto, è per essa che possiamo incontrare tutti. Il nostro Dio, infatti, non è un Padre da fare contento, ma è un Padre che ci vuole semplicemente contenti. È questa la certezza che ci permette di portare tutto, anche i nostri errori, fuori dal guado della storia ed è questo che ci permette, sempre, di ricominciare. Prima che il solito cinismo possa iniziare, come sempre, a dire l’ultima parola.