Il profumo dei fiori freschi s’intreccia col riservato cinguettio degli uccelli e le nostre lacrime spesso affiorano discrete e rispettose del dolore altrui. Poche cose sono ancora nitidamente avvertite nella coscienza collettiva del nostro paese come il giorno che la Chiesa dedica alla commemorazione dei defunti. Ed è proprio in quel “commemorare” che sta la profondità di questo appuntamento: è come se, per un giorno all’anno, il tessuto sociale si aprisse e permettesse, senza recriminazioni o ipocrisie, di tornare sul proprio dolore, nelle parti più straziate del cuore.
Le tombe diventano, così, appuntamenti con se stessi, con la nostra storia, e ogni passo, ogni “fermata”, ci immerge nel desiderio profondo che la vita non sia tutta lì, che niente finisca così. “Se tu potessi vedermi adesso, nonno, nonna, papà, mamma, figlio mio… Se tu potessi vedermi adesso, capiresti quanto ti ho amato, quanto ho lottato, quanto aveva senso ciò che magari ti dicevo e tu non capivi. Se avessi visto quel matrimonio, quella laurea, quella malattia… Se solo tu ci fossi stato!”
Inutile dire che questa mancanza, che la società ci concede di sentire un giorno all’anno, è la parte più vera della vita, la parte che più ci fa comprendere da quante vite sia costruita la nostra piccola esistenza. Capita così che, nei momenti meno attesi, ci sembra che chi non c’è più ritorni, ci metta la mano sulla spalla e ci riporti a centomila vite fa, quando tutto era diverso, quando tutto, forse, era più prezioso. Il senso della commemorazione è che questo “pellegrinaggio dell’esistenza” avvenga non da soli, ma insieme, perché ciascuno possa vedere le lacrime di tutti e collocare il proprio dolore accanto a quello degli altri, comprendendo che ciascuno ha qualcuno da piangere e da attendere e che nessuno può rivendicare più compassione degli altri: tutti — chi più chi meno — attraversiamo l’ora dell’addio, siamo incapaci di salutarci sul serio e di riconsegnare al Mistero un brandello della nostra vita, un volto, uno sguardo. Non siamo abituati a lasciare, a restituire, a perdere.
Eppure è questo essere perdenti che costruisce nel nostro cuore lo spazio per accogliere il grande Ospite, Colui che può rispondere ad ogni inquietudine della nostra anima e che in questi giorni passeggia con noi tra i cimiteri nella ferma speranza che, alla fine di ogni lacrima, rimanga l’ultima disponibilità del cuore ad essere toccati da Lui, ad essere abbracciati dal Suo Amore.
Tramonta così il giorno dei defunti. E lo strazio della mattina lascia il posto alla vita che incombe e che — frenetica — torna a muoversi. Ma come posso dimenticarmi di te, del tuo sorriso, della tua amicizia? A poco a poco le ferite diventano cicatrici, ma quelle cicatrici ci hanno effettivamente segnato e cambiato per sempre. E stanno lì a testimoniare il bisogno che venga Qualcuno più forte della morte, Uno che possa finalmente restituire bellezza e dignità al nostro viso segnato dal dolore, segnato dall’incredibile presenza di chi dovrebbe essere assente ma che, invece, continua ad esserci. Nella memoria e nelle viscere della nostra storia. Con la certezza che niente, davvero, finisca così: nella cenere polverosa del tempo privo di una vera speranza, privo di una vera misericordia. La luce vincerà. E niente di ciò che adesso sembra perduto potrà sottrarsi all’irresistibile fascino di un nuovo inizio, di una Vita vera che inesorabilmente avanza e ci abbraccia.