E’ di questi giorni la notizia che il ministro della Salute Beatrice Lorenzin incontrerà i rappresentanti degli istituti di cura che hanno dichiarato di non essere disponibili all’applicazione di alcune delle previsioni della legge sul biotestamento per ragioni di coscienza. Ciò con l’obiettivo di individuare un punto di equilibrio tra la necessità di procedere all’applicazione della legge e le esigenze di tutela delle posizioni di coscienza di medici e personale sanitario. Purtroppo l’iniziativa, anche se dimostra la sensibilità istituzionale del ministro, non potrà sortire gli effetti sperati, che presuppongono una vera e propria modifica della legge approvata.
La formulazione attuale della legge non consente infatti di darle attuazione salvaguardando al contempo il diritto all’obiezione di coscienza, che non è previsto. La legge ha un’impostazione che si potrebbe definire “asimmetrica”, in quanto, mentre esalta la libertà di autodeterminazione del paziente, deprime il ruolo del medico, riducendolo di fatto ad una sorta di “esecutore testamentario” delle altrui volontà.
Ciò dimostra una volta di più che c’è un rovescio in ogni nuovo diritto e che non esistono diritti che possano essere riconosciuti a costo zero.
Secondo quanto prevede la legge, il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di “rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”, il che implica non solo che il medico si deve astenere dal porre in essere trattamenti sanitari senza il consenso del paziente, ma che è altresì tenuto ad intervenire per interrompere tali trattamenti qualora il paziente lo richieda. Questo anche laddove tale interruzione possa condurre alla morte del paziente. Ciò stride non poco con la previsione dell’articolo 17 del Codice medico deontologico secondo cui “il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.
Se poi in qualche modo il singolo medico potrebbe cercare di astenersi da comportamenti che ritiene contrari alla propria coscienza, ciò non potrebbe comunque valere per le strutture sanitarie, dato che la legge stabilisce che “ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi” di cui alla legge stessa.
Questo implica che un istituto che rifiutasse l’integrale applicazione della legge si troverebbe esposto al rischio della revoca dell’accreditamento e di azioni giudiziarie da parte dei pazienti o dei loro familiari, così come è accaduto alla Regione Lombardia, condannata dal Consiglio di Stato al risarcimento dei danni a favore di Beppino Englaro per non aver posto a disposizione una struttura sanitaria nella quale porre fine all’esistenza di sua figlia Eluana.
Si è molto dibattuto in questi anni sulla natura della nutrizione e dell’idratazione artificiali. Il Comitato Nazionale per la Bioetica era giunto alla conclusione che esse sono da considerarsi misure di sostentamento vitale, che non possono essere sospese se non nel caso in cui diano luogo ad una forma di accanimento terapeutico. Viceversa le sentenze della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato sul caso Englaro avevano qualificato la nutrizione e l’idratazione artificiali alla stregua di veri e propri trattamenti sanitari, che possono pertanto essere interrotti in presenza di un’espressa richiesta in tal senso da parte dell’interessato.
La normativa sul biotestamento sposa evidentemente questa seconda tesi, ma, nella consapevolezza che si tratta di una classificazione opinabile, prevede che la nutrizione e l’idratazione artificiali siano considerati trattamenti sanitari “ai fini della presente legge”.
Essa, dunque, di fatto consente la sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiali senza che sia verificato il presupposto che, da un punto di vista scientifico, si tratti effettivamente di trattamenti sanitari.
Peraltro la previsione secondo la quale alimentazione e idratazione artificiali potranno in ogni caso essere sospese farà sì che anche pazienti che non versano in gravi condizioni di salute potranno scegliere la morte senza che alcuno possa in qualche modo opporsi a tale decisione; addirittura ciò potrà avvenire anche per persone che solo temporaneamente non sono in grado di alimentarsi per via naturale.
Per quanto riguarda poi le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), la legge prevede che le stesse possano essere rese da ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”. In realtà questa previsione rischia di risolversi in una petizione di principio, dato che nella stragrande maggioranza dei casi non sarà di fatto possibile verificare se il soggetto che rende le Dat abbia preventivamente acquisito adeguate informazioni mediche. Nemmeno nel caso in cui le Dat “appaiano palesemente incongrue” è consentito al medico di disattenderle unilateralmente, essendo necessario per procedere in tal senso il consenso del fiduciario nominato dalla persona che ha reso le disposizioni; in caso di disaccordo la relativa decisione è rimessa al giudice tutelare.
Lo stesso meccanismo è contemplato per l’ipotesi in cui vi siano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle Dat, idonee ad offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Questa previsione potrà assumere rilevanza concreta poiché la legge approvata, a differenza di altre proposte di legge presentate in questi anni, non prevede un termine decorso il quale le Dat perdono efficacia se non rinnovate.
I medici potranno dunque essere tenuti a dare esecuzione a Dat che risalgono anche a moltissimi anni prima, con buona pace della certezza che esse rispecchino ancora la volontà del dichiarante.
Per una legge che pone al centro la libertà assoluta di autodeterminazione del paziente non è poco.