Già il nome, Ficarra, richiama alla mente il duo comico (l’altro è Picone) dei “nati stanchi”. Quelli del “Ma perché tu hai lavorato mai?”, “Mi stavo alzando per andare all’ufficio di collocamento!”. In questo caso il nome Ficarra ha portato agli onori della cronaca un paesino di 1.300 abitanti del Messinese, dove si contano ben 40 impiegati e addetti comunali. Forse un record, o forse no. Ma da record è probabilmente il fatto che il 57% di questi impiegati (23 su 40) sono indagati per assenteismo.
Un’indagine della Procura di Patti, dopo aver smascherato “un vero e proprio sistema fraudolento e patologico ai danni della pubblica amministrazione sviluppatosi e rafforzatosi nel tempo in un contesto di anarchia amministrativa”, ha portato alla sospensione di 16 persone, tra cui la dipendente addetta al settore “trasparenza e anticorruzione”, che in soli due mesi ha collezionato ben 160 assenze ingiustificate. Non solo: pur dovendo vigilare sul corretto operato dell’ufficio, la responsabile anticorruzione avrebbe invece chiuso un occhio, molto probabilmente tutti e due, sui 22 “in-faticabili” colleghi di lavoro (lavoro, parafrasando Ficarra e Picone, del tipo “mi stavo alzando per timbrare il cartellino e andare al supermercato”). E non è finita: di fronte ai rilievi mossi, gli accusati hanno candidamente confessato: “A Ficarra si fa così da 30 anni. Ognuno agisce per coscienza personale”.
Ora, sarebbe sin troppo facile e scontato ironizzare sulla (non) voglia di lavorare dei siciliani, che tanta oleografia e tante barzellette hanno raccontato. Ma i furbetti del cartellino, lo sappiamo, allignano anche ben al di qua dello Stretto. Liquidare la vicenda con stereotipi stantii o facile indignazione non basta.
La vicenda di Ficarra suggerisce due notazioni, e non tanto a margine. La prima: non basta avere tra le proprie fila un responsabile anticorruzione, perché il ruolo, di per sé – burocraticamente assegnato e burocraticamente esercitato – non è garanzia ipso facto di trasparenza, legalità, correttezza. Non basta il cartellino con tanto di nome, cognome e qualifica in bella mostra. È la saggia lezione dei Cori dalla Rocca di Eliot: “Essi cercano sempre di evadere / dal buio esteriore e interiore / sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono”. Senza la libertà personale, la decisione di mettersi in gioco, di mettersi al servizio, la tentazione – non solo per i furbetti del cartellino, ma per tutti i “furbetti della vita” – è quella di evadere, di assentarsi, di voler essere sempre altrove.
Seconda notazione: “Ognuno agisce per coscienza personale”. Agire con coscienza. Quante volte, da piccoli, i nostri genitori ci invitavano “a mettere una mano sulla coscienza” prima di fare qualcosa di importante? Agire con coscienza non è una questione di buone maniere, di buone regole, di deontologia professionale. È molto di più: implica una pienezza, una piena consapevolezza dell’io, un’adeguata concezione di sé. Capire il senso di ciò che si fa (per sé, innanzitutto, e soprattutto in un “ufficio pubblico”, anche per gli altri) significa aver sempre presente (mai assente) il nesso tra il gesto, eclatante o banale, che si compie, tra il dovere, grande o piccolo, che si adempie e il destino, la pienezza dell’io.
Lo descriveva molto bene don Giussani: “Il lavoro è l’espressione del nostro essere. Questa coscienza dà veramente respiro all’operaio che per otto ore fatica sul banco di lavoro, come all’imprenditore teso a sviluppare la sua azienda. Ma il nostro essere – ciò che la Bibbia chiama “cuore”: coraggio, tenacia, scaltrezza, fatica – è sete di verità e felicità. Non esiste opera, da quella umile della casalinga a quella geniale del progettista, che possa sottrarsi a questo riferimento, alla ricerca di una soddisfazione piena, di un compimento umano: sete di verità, che parte dalla curiosità per addentrarsi nell’enigma misterioso della ricerca; sete di felicità che parte dall’istintività e si dilata a quella concretezza dignitosa che sola salva l’istinto dal corrompersi in falso ed effimero respiro. È questo cuore che mobilita chiunque, qualunque impresa realizzi”.
Sì, una mano sul cuore – quel guazzabuglio di desiderio, coraggio, tenacia, scaltrezza, fatica, sete di verità e di felicità… -, più che un badge nascosto tra le mani, può aiutare ciascuno a vincere la tentazione o l’abitudine ad assentarsi dalla propria vita e dal proprio compito.