Ieri sera ero nello splendore della Basilica dei Santi Apostoli, nel cuore di Roma, per una celebrazione che inaugurava un’ostensione particolare, quella delle reliquie dei santi Filippo e Giacomo. Ricorreva la festa liturgica di questi due apostoli di seconda fila, che si ricordano nei Vangeli quando si enumerano tutti gli altri. Filippo è il greco, o meglio quello vicino ai greci e ai pagani, l’apostolo dei lontani. Giacomo, detto il minore che non ha niente a che fare con quello le cui spoglie sono finite in modo immaginifico a Santiago, è il giudeo osservante, colui che sostenne con fermezza Pietro nella nota disputa contro i rigorismi in tema di circoncisione. Il primo originario di Betsaida, in Galilea, il secondo poco definito persino nel luogo di nascita. Di certo si sa che vissero nel primo secolo dopo Cristo. Nella diversità di caratteri e di storie, quell’unica fede che li lega, l’amore per Cristo che li portò entrambi a finir male, o bene, a seconda dei punti di vista. Insomma martiri per aver seguito Gesù.
Da ieri dunque, fino al 15 maggio, chi passa da Roma può gettare un’occhiata dentro la basilica della Piazza più ignorata dai romani. E scoprire così le storie di questi due santi, insieme a ciò che rimane dei loro resti: il piede di Filippo e il femore di Giacomo. Saranno esposti, insieme al risultato di una ricognizione effettuata all’inizio di aprile, alla devozione dei pellegrini e alla curiosità dei turisti, simboli di una storia, quella cristiana, antichissima e avventurosa. C’è da pensare: è dal 560, dall’epoca di Papa Pelagio I, che i resti dei due apostoli sono conservati nella Basilica romana, che dalla metà del 400 è retta dai Frati minori conventuali.
La storia la racconto perché proprio a partire dalla vicenda di Giacomo e Filippo, ieri mattina, durante la celebrazione in Santa Marta, Papa Francesco ha fatto un catalogo dei cristiani di oggigiorno, che nulla o poco hanno a che fare con i due bravi apostoli.
Innanzitutto, i più, non ne hanno la tempra. O chi gli somiglia, si avvicina ai due solo mutando il loro status post mortem, vale a dire apparendo mummificati. E’ il caso del credente che non cammina, che sembra appunto imbalsamato. Talmente immobile secondo il Papa, che è un po’ “paganizzato”. Sta fermo, non si muove, non cammina nella vita cristiana: non fa del bene, ma neanche del male. E’ una “mummia spirituale”. Non certo il caso dei due apostoli santi, che a dispetto della miseria dei propri resti, dopo l’aureola, hanno conquistato anche la devozione di milioni di persone nel mondo.
Ma andiamo avanti. Altro caso: “i cristiani testardi”, quelli che la strada del Signore l’hanno persa da un pezzo, ma che pur di non ascoltare il richiamo di Dio continuano imperterriti ad andare avanti sul crinale sbagliato. Presuntuosi oltre che stupidi.
E poi i miei preferiti. I “cristiani vagabondi”, quelli che camminano, camminano ma non sanno dove vanno. Girano, provano, ritrovano, rivanno, ma in fondo non fanno che percorrere i sentieri senza uscita di un labirinto in cui solo il loro errare conta. Sono quelli che si perdono tutto, nell’ansia di cercare qualcosa che hanno già. La bellezza della compagnia di Dio.
E infine la categoria maggioritaria, quelli in cui bene o male ci potremmo infilare tutti: “credenti a metà strada”. Sono quelli che l’incontro con Gesù l’hanno fatto, ne hanno riconosciuta l’indiscutibile bellezza, senza però seguirla fino in fondo. I credenti a metà sono affascinati dall’idea di Dio, dalla sua proposta, dal suo progetto, ma — esteti del destino — non ne accettano le implicanze. La moralità che sgorga dall’incontro con Cristo non li “prende”, troppo faticosa, non cattura. Sono quelli che non avrebbero mai fatto la scelta di Filippo e Giacomo di rimanere sulla “strada giusta” indicata da Gesù, fino a rimetterci la pelle. I cristiani a metà siamo noi quando non ci giochiamo la vita nell’incontro con Cristo. Perché, ha spiegato bene Papa Francesco, “la vita cristiana non è un fascino: è una verità”. E’ una persona. Gesù Cristo. Molto più difficile da eludere.