Pubblichiamo, di seguito, la prima parte dell’intervista concessa dal cardinale Julien Ries a Roberto Fontolan per l’Osservatore Romano intitolata: Un contatto che rivela una realtà superiore
Una casa in Belgio, stracolma di libri, di ricordi e di progetti: è la dimora di Julien Ries. Qui incontriamo il professore diventato cardinale, che ancora oggi vi trascorre, immerso nello studio, gran parte del suo tempo.
Eminenza, come è nata questa sua passione per gli studi circa l’uomo religioso?
Nel 1968 sono stato nominato professore di Storia delle religioni all’Università cattolica di Lovanio. Avevo fatto studi di teologia e di orientalismo. La mia tesi esaminava certi testi copti e l’influenza del Nuovo Testamento su questi testi. Quindi mi ero dedicato allo studio comparato di testi religiosi egiziani. Una volta diventato docente dovetti affrontare grandi questioni: l’induismo, il buddhismo, l’islam, le religioni del Mediterraneo, le religioni del Vicino Oriente, l’antica religione egiziana. Notavo come i miei studenti si appassionassero a questi temi, studiavo le domande che mi rivolgevano, moltissime domande. Una dinamica che mi ha portato sempre più in profondità. Ma posso aggiungere anche che se ho studiato il tema della morte e dell’immortalità nelle religioni è perché l’allora cardinale Ratzinger mi inviò il suo libro sull’aldilà per la fede cristiana, Escatologia. Morte e vita eterna. Pensai che sarebbe stato importante un simile studio su altre grandi religioni. E così attraverso alcune circostanze e il lavoro all’università ho continuato le mie ricerche e sono giunto ad una sintesi sul problema dell’uomo religioso e dell’antropologia religiosa. Che cosa significa il sacro, che cosa significa l’uomo religioso, che cosa significa antropologia religiosa? C’erano amplissimi studi di antropologia sociale e culturale e di antropologia strutturale, ma l’antropologia dell’homo religiosus non esisteva.
In questo lungo cammino chi ha trovato come maestri e compagni?
A parte alcuni dei miei professori universitari cito sempre due grandi personalità del XX secolo: il rumeno Mircea Eliade e il francese Georges Dumézil. Sono veramente i più grandi, i loro lavori sono veramente fondamentali. Poi nel corso della mia vita di studioso ho avuto innumerevoli occasioni di incontro e di scambio. Sono particolarmente legato all’Italia, dove ho partecipato a moltissimi congressi e sono diventato amico del compianto professor Bianchi. Qui ho anche trovato il mio editore italiano, la Jaca Book diretta da Sante Bagnoli: ha contribuito moltissimo alla diffusione dell’antropologia religiosa. Nel momento in cui andavo in pensione Bagnoli mi ha proposto la pubblicazione dell’opera omnia. Diceva che sarebbe stato un propellente per una nuova generazione di studiosi delle grandi religioni, e anche per questo abbiamo creato l’Archivio di Milano all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ho esitato un po’, ma ora, a serie iniziata, devo riconoscere che qui da voi ha un grande riscontro. Inoltre sta cominciando l’edizione francese e tra poco quella spagnola.
In Italia ha conosciuto don Giussani e il Meeting di Rimini. Che ricordo ha del sacerdote fondatore di Comunione e liberazione?
Sentii parlare di don Giussani proprio al Meeting del 1982, il mio primo (con il prossimo saranno diciotto). Non conoscevo il movimento ma in quella settimana a Rimini cominciammo a diventare grandi amici. Don Giussani mi chiese di passare da lui a Gudo Gambaredo, poco fuori Milano, dove abitava. E così feci poi regolarmente, ogni volta che venivo in Italia. Abbiamo potuto parlare per ore. Una personalità eccezionale, del tutto semplice e accessibile, ma eccezionale. Lo era per la sua fede, per la comunicazione della fede, per la sua influenza sui giovani.
E di cosa parlavate così a lungo?
Dei grandi problemi della Chiesa e specialmente della proposta del movimento: mi interessava molto perché era il mio primo incontro con un movimento ben organizzato che affrontava la crisi nella Chiesa. È questo che mi aveva impressionato nel 1982, e cioè che Comunione e liberazione era la risposta alla rivoluzione del 1968. Questo l’avevo avvertito subito e successivamente ho letto che era proprio così. Ecco perché ero così entusiasta.
Come ha seguito la storia del Meeting in tutti questi anni? Come l’ha vissuta?
Il mio primo ricordo è di un raduno di giovani entusiasti, che mostravano la loro fede, e che davano la testimonianza della loro fede, e che erano una forza nuova per la Chiesa. All’epoca ho potuto portare alcuni studenti del movimento in Belgio e così oggi anche qui abbiamo Comunione e liberazione; anzi nei prossimi giorni avrò di nuovo il piacere di incontrare un gruppo di Bruxelles.
Qual è l’originalità del Meeting, qual è il contributo più interessante che la manifestazione riminese ha portato in questi oltre trent’anni di storia?
Penso che la formula, che rimane sempre la stessa ma cambia ogni anno, abbia qualcosa di originale: è una formula che fa alleanza tra fede e cultura e dimostra come fede cristiana e cultura cristiana insieme siano la forma di un mondo migliore.
Nel suo monumentale lavoro uno dei concetti fondamentali è quello della “ierofania”: come lo definisce?
Bisogna cominciare cercando di comprendere il sacro. Il sacro è la trascendenza, una realtà che oltrepassa questo mondo ma che si rende presente in questo mondo. La parola ierofania deriva dal greco: il sacro, hieròs, si manifesta. Il sacro è percepito dall’uomo perché si manifesta. Quando l’uomo si trova davanti alla croce del Cristo o a una statua del Buddha o davanti a un evento religioso, l’uomo sente che lì c’è qualcosa che va oltre ciò che accade ordinariamente nel mondo.
La ierofania è quindi un avvenimento che eccede la normalità della vita?
Sì, è questo.
Dobbiamo intenderla come vera e propria manifestazione del divino?
Della trascendenza. Del divino nelle religioni che hanno la concezione di una divinità. Nel buddhismo, dove non c’è la concezione di una divinità, il sacro è nel cuore stesso del buddhismo, nel Nirvana.