C’è qualcosa che nessuno riuscirà a strapparci dal cuore. Quel silenzio grave, interminabile, assoluto che ha chiosato l’ultima omelia pubblica di Benedetto XVI, pontefice dimissionario, coscienza al cospetto di Dio, uomo afferrato, suo malgrado, dalla Storia. Chi era dentro il tempio di Pietro ha potuto quasi percepire il respiro pesante del Papa, l’immobilità pietrificata dei profili cardinalizi, lo scivolare muto delle lacrime popolari. Non c’era solo l’approssimarsi del momento penitenziale, il climax del rito nel memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris, ma il carico emotivo di un istante senza precedenti e allo stesso tempo irripetibile.
La solennità della liturgia quaresimale era riempita dalla drammaticità della decisione comunicata al mondo da Benedetto XVI all’inizio della settimana. Sul suo volto stanco, nello sguardo lucido e distante, nelle mani abbandonate sul grembo, ancora illuminate dall’anello piscatorio, l’enormità del suo atto, la gravità dell’istante insieme alla responsabilità accolta e scelta. Niente e nessuno avrebbe potuto essere più Pietro di lui. Completamente assorbito nel mistero di un compito che oggi più che mai sembra indispensabile. Il silenzio liturgico ha aiutato a comprendere e a trattenere i gesti che Joseph Ratzinger ha compiuto per l’ultima volta, in pubblico, da pontefice. L’inizio di un addio struggente e ancora difficile da digerire. Come l’immagine tenerissima e commovente delle ceneri sparse sui capelli bianchi e arruffati del vecchio Papa. Se l’espressione mesta del card. Comastri, mentre compiva il rito, richiamava la tristezza e la malinconia di tanti volti, nulla era paragonabile alla compenetrazione del Vescovo di Roma, alla concentrazione nobile della sua persona, alla pienezza del suo essere.
Commovente, nella sua pesante libertà. Eppure non aveva tradito incertezze, liquidando, ancora una volta, in poche frasi l’evento con cui aveva sorpreso tutti lunedì scorso. Solo un rapido cenno per passare all’essenziale. Il consueto spostamento d’asse: dalla sua persona all’oggetto del suo amore. Il ritorno a Dio. Lo stesso indicato ai fedeli preparati al tempo quaresimale ma non a separarsi dal loro pontefice. Alla Chiesa che affronta uno dei momenti più complessi e inquietanti della sua millenaria storia ha chiesto il coraggio della conversione. Difficile non leggere in trasparenza le parole fatte risuonare dal profeta, “laceratevi il cuore e non le vesti”. Non pensare che l’accenno a chi è pronto a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali e ingiustizie e poco disponibile ad agire su cuore, coscienza e intenzioni non sia un riferimento a quanti dentro la chiesa hanno ostacolato il paziente, chirurgico e sanante lavoro di riforma intrapreso da Joseph Ratzinger. Come è impossibile non cogliere il segno di un lascito nel richiamo a vivere la Quaresima in “una più intensa comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità”.
Se c’è qualcosa che le dimissioni di Benedetto XVI hanno definitivamente archiviato è il sospetto di ipocrisia religiosa, quella che lui stesso ha denunciato sotto le cupole scintillanti di San Pietro. “Il vero discepolo non serve se stesso o il pubblico, ma il suo Signore”. Non è la risposta alle velate obiezioni, ai malcelati mugugni, alle frettolose e quasi omissorie spiegazioni seguite al suo gesto rivoluzionario? “La nostra testimonianza sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria” ha detto “la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui”. Nessuno oggi ha più fede di quest’uomo. La Chiesa ha un’unica possibilità: lasciarsi prendere per mano e farsi accompagnare fino al momento del distacco. E nel frattempo amarlo come non ha mai fatto.