Caro Schwazer,
Mi permetto di chiamarti caro sebbene non ti conosca. Per onestà ti informo che non sapevo neanche che esistessi prima dell’esposizione mediatica di queste ore.
Devi perdonarmi, sai, ma tendo a non seguire molto lo sport e solo per questo il tuo nome mi era ignoto.
Ti ho chiamato caro perché sono colpito dalla tua vicenda e mi sono trovato a provare un po’ di tenerezza per la storia in cui ti sei infilato, con i tuoi ventotto anni.
Ho letto, come moltissimi italiani, le tue dichiarazioni, molte delle quali sono state pesantemente criticate. In particolare è stato rimarcato quel tuo ripetere “mi prendo tutte le responsabilità”, frase che il tuo allenatore ha persino definito puerile. Ecco è per questo che ho pensato di scriverti, perché trovo la questione interessante. Per me innanzitutto e quindi, credo, anche per te.
Non ci prendiamo le nostre responsabilità, sai. Quelle le abbiamo e basta, per il solo fatto di essere uomini, ossia soggetti che pensano in proprio le loro azioni. Semmai raccogliamo le conseguenze dei nostri atti, e ciò vale per quelli buoni come per quelli cattivi. Queste conseguenze si chiamano sanzioni: se tratto
Bene una donna verosimilmente avrà piacere a stare con me, se le tiro un bidone clamoroso al primo appuntamento potrebbe non accettare un secondo invito. Siamo sempre dentro un rapporto, qualsiasi cosa facciamo, e la dimensione della sanzione ci accompagna, grazie a Dio, in ogni istante.
In questo momento, doloroso e di confusione, stai sperimentando che ogni nostro atto, compreso il ricorrere al doping, si trascina dietro delle inevitabili conseguenze. Le avrebbe avute comunque sulla tua salute anche se non ti avessero scoperto, credimi: da medico conosco cosa può provocare l’EPO sul tuo corpo se usata a sproposito.
Mi sento di farti una confidenza, un aneddoto personale. Avevo sei anni ed ero in vacanza con i miei all’Isola d’Elba. Non so perché, ma mi sono ritrovato in visita al carcere di Porto Azzurro. Mentre mi aggiravo per il negozio dei lavoretti preparati dai carcerati, in un momento in cui mamma e papà erano intenti a parlare con dei conoscenti, sono stato avvicinato da un carcerato, che si occupava della vendita. Io avevo paura e tenevo lo sguardo a terra, così non ricordo il suo viso, ma solo i miei sandali blu con gli occhietti. Però ricordo bene la sua voce che diceva: “Ehi, bambino lo sai perché sono qui da vent’anni?”. Io no, non lo sapevo e non volevo neanche saperlo. Ma lui evidentemente ci teneva a dirmelo.
“Perché ho fatto una cazzata, una sola. Capisci? Una sola”. E io con la testa facevo di sì, che avevo capito che aveva fatto solo una cosa cattiva, e una soltanto.
“Allora pensaci, prima di fare le cose. Ricordatelo, sempre!” e poi mi lasciò andare. Quando mio padre mi prese per mano notò che era gelata e si chiese se per caso non stessi bene.
Non gli ho mai raccontato cosa fosse successo.
Ecco, innanzitutto tu non hai ucciso nessuno. E questa è la prima buona notizia. Per usare un termine più appropriato rispetto a quello sentito dal carcerato, hai fatto un grave errore le cui conseguenze si riverberano oggi su te e su altri. Un errore che tra l’altro ha ottenuto una straordinaria visibilità pubblica, molto più di quella che ottengono le nostre debolezze quotidiane.
Mi impressiona quando penso che c’è solo una cosa che non è possibile anche a quel Dio che reputo onnipotente: far sì che non sia mai accaduto ciò che è realmente accaduto. Mi riterrei folle se glielo chiedesse nella preghiera. Eppure è una tentazione che viviamo costantemente sul nostro errore: sperare che non sia mai successo. Ma la realtà si impone sempre, oltre il nostro volere. E questa è la seconda buona notizia. Che paradosso: in te che finora hai vissuto in modalità fast-forward, anche a ogni costo come abbiamo visto, potrebbe darsi lo strano desiderio di fare rewind e tornare indietro nel tempo. Non si può, sai.
L’unica cosa che possiamo fare è giudicare ciò che è accaduto, ciò che abbiamo fatto. E questa è la terza e ultima buona notizia che ho per te. Il mio augurio è che tu non ne esca solo pentito, ma anche ravveduto, ossia con un sapere che prima non avevi. Sapere cosa conta per te, chi sono quelli che puoi chiamare amici, dove possono portare le scorciatoie, cosa significa vincere, per cosa sei disposto a sacrificare la tua faccia. Ma di più, in cosa consiste la tua faccia. Hai dichiarato all’Ansa che la tua carriera è finita. Ok, magari hai ragione: ricordati però che è lei a essere finita, non tu.
Se posso permettermi un consiglio: astieniti da Facebook nei prossimi giorni. Ci saranno i bravi e gli onesti schierati a lapidarti. Non durerà molto, se ti può consolare. Hanno sempre fame di nuovi bersagli e presto si sposteranno su altri. Ti diranno che li hai ingannati, traditi, delusi. Non cadere nel loro ricatto, ti annebbierebbe la vista portandoti su una falsa strada.
Prenditi del tempo, piuttosto, per ripensare e giudicare ciò che è accaduto a te, in te. Una vecchia parola che è meglio non ci abbandoni- perdono – ha a che fare con tutto ciò: non è dimenticanza o rimozione, ma giudizio.
La quarta buona notizia invece la attendiamo da te. Accadrà quando ci farai sapere che non maledirai più cosa è successo, quando ci informerai su cosa hai pensato di fartene di quello che hai imparato, quando ci racconterai tutto il buono che questa vicenda ha inaspettatamente prodotto in te. Perché finirà così, fidati.
Noi ti aspettiamo qui.