Tutti noi abbiamo dei mostri dentro. Uno di quelli che abitava il cuore di Martina Levato è emerso nella relazione con Alexander Boettcher, un rapporto malato che ha dato vita ad azioni malate – le aggressioni orribili con l’acido -, un rapporto basato sull’assurda convinzione che in fondo la giustizia, l’amore e il bello fossero loro stati negati per sempre e che – per questo – andassero ripresi, rivendicati, rubati.
Il male non nasce mai da una natura definitivamente cattiva, bensì dal dolore, dal tradimento, dall’ingordigia. Quel male è stato non solo pensato e teorizzato, ma è diventato, in quel rapporto, azione. Adesso però viene la parte più dura, quella che qualunque non credente deriderebbe con rabbia e rancore, ma che ha davvero del portentoso: Dio ha risposto a tutto quel male permettendo che dentro quell’inferno sorgesse un seme, un virgulto, che ha visto la luce proprio il 15 agosto, il giorno in cui la Chiesa festeggia il fatto che niente dell’uomo va perduto, che tutto è assunto e salvato. Agostino commenterebbe “etiam mala”, anche i mali, anche i peccati. Da lì, da quel fatto inatteso, cambia tutto.
E se noi non guardiamo tutta la vicenda da quel punto di vista ci smarriamo, ci perdiamo, tra “compassionisti” e “colpevolisti” e tramutiamo Achille, il bambino che la mitologia greca vuole destinato ad essere “migliore di suo padre”, in un caso, in un pettegolezzo di fine agosto. Il fatto veramente significativo non sono le valutazioni dei giudici e dei periti, tutte legittime, né le filippiche sulla paternità o sulla maternità che i puristi ci propinano a tutte le ore in tutti i talk show. Il punto è che di fronte a quel bambino riemerge tutta la drammaticità del nostro essere uomini, tutto il bisogno che abbiamo di guardare alla realtà e affrontarla fino in fondo.
Con quel bambino è come se Dio ci dicesse che la vera questione dell’esistenza non inerisce ultimamente le nostre azioni, ma la capacità che abbiamo di assumercene la responsabilità dinnanzi al mondo intero. Martina può essere madre, ma se impara a piangere e a chiedere in ginocchio scusa alle persone cui ha rovinato, o progettava di rovinare, la vita; Alex può essere padre, ma solo se accetta di essere malato, di farsi curare, di far pace con se stesso e con una storia che non ha mai davvero voluto guardare.
Nessuno, infatti, può accogliere un altro se prima non ha almeno iniziato ad accogliere e ad amare sé. È questo che i giudici dovranno valutare. Non semplicemente se i due possano accudire il bambino, ma se hanno preso coscienza del mostro che li ha divorati, del male che hanno fatto e del fatto che avere un figlio non è un gioco e – soprattutto – non è qualcosa che i due possono vivere all’interno della loro relazione, un rapporto che potrebbe anche non essere mai davvero e del tutto sanato e quindi, inevitabilmente, irrecuperabile.
Per questo forse la soluzione migliore si chiama “affido”, ossia quella forma di vita in cui le braccia e gli sguardi dei genitori biologici diventano più forti perché sostenuti da braccia e occhi più grandi dei loro, quelli di una famiglia disposta ad accogliere tutto il male e il dolore di questa giovane coppia che – se stiamo alla cronaca – ci appare soltanto come un combinato di mostruosità perverse e devianti. Mentre forse, invece, si tratta solo di due umanità mancate, di due domande non poste, di due mostri mai davvero amati e che aspettano solo di essere affidati, consegnati, donati.
Che cosa strana questa tragedia: è tutto più complesso di quello che sembra, è tutto più ampio di ciò che dicono i giornali, è tutto più difficile, ma – soprattutto – è tutto ricominciato il 15 agosto. Un giorno non banale in una storia non banale che, per essere davvero esplorata nel suo terribile dilemma, ha bisogno di un cuore serio, di un cuore vero. Al di fuori di questo c’è infatti solo l’inferno. Quel dolore che brucia così tanto da diventare giustizialismo, vendetta, tiepida compassione, o – molto più prosaicamente – cecità assoluta. Ovvero l’incapacità di vedere, in questa vicenda tragica, l’unica mossa che conta, la mossa di Dio. La mossa che, come sempre, ha riaperto la partita.