È possibile che, questa volta, l’epilogo del caso Battisti si stia davvero avvicinando. Conviene ricordare alcuni passaggi della vicenda, che ha subìto varie oscillazioni.
Nel 2009, il governo italiano ha già richiesto l’estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo con sentenza passata in giudicato, sulla base del trattato bilaterale di estradizione fra Italia e Brasile del 1989. Il trattato prevede, infatti, un obbligo reciproco di estradizione, condizionato alla circostanza che la condanna sia avvenuta per un fatto considerato reato anche secondo il diritto interno dell’altra parte.
L’obbligo di estradizione previsto dal trattato non è però incondizionato. Esso ammette, anzi, una serie di eccezioni, fra le quali due che sono tradizionalmente presenti nei trattati di estradizione: l’eccezione relativa al carattere politico del reato, e quella legata al rischio di persecuzioni che il soggetto da estradare potrebbe subire una volta arrivato nello stato richiedente.
Ambedue tali eccezioni sono state invocate dal Brasile. Il governo brasiliano, dopo aver prospettato un rischio di persecuzione legato, secondo quanto riportato dalla stampa, alla situazione carceraria del nostro Paese, ha concesso a Battisti nel 2009 lo status di rifugiato politico. Al riconoscimento di tale status, di conseguenza, ha fatto seguito il rifiuto dell’estradizione.
L’invocazione di tali eccezioni non appare però convincente. In particolare, non sembra fondata l’invocazione del carattere politico dei reati per i quali Battisti è stato condannato. Nella prassi internazionale, la nozione di reato politico tende ad essere interpretata in maniera restrittiva, escludendo quindi che essa si estenda anche a reati comuni, pur se soggettivamente motivati. In caso contrario, qualsiasi richiesta di estradizione per fatti di terrorismo dovrebbe essere respinta in ragione del fatto che i reati commessi da terroristi sono, per definizione, soggettivamente motivati da ragioni politiche. La nozione di reato politico fa riferimento, invece — oltre che ai reati oggettivamente politici, quali la sedizione, la rivolta e così via —, a condotte che costituiscono espressione delle libertà politiche o sociali riconosciute dalle moderne Costituzioni nazionali e dagli atti internazionali sui diritti dell’uomo, quale, ad esempio, l’esercizio del diritto di sciopero, o della libertà di manifestazione del pensiero. Di conseguenza, il rifiuto di estradizione da parte del Brasile deve essere considerato come una violazione degli obblighi previsti dal trattato bilaterale.
La reazione italiana a tale illecito si è svolta soprattutto sul piano diplomatico. In relazione al rifiuto brasiliano, lo Stato italiano reagì con il richiamo dell’Ambasciatore per consultazioni. L’Italia si astenne dal far ricorso a misure di carattere ritorsivo, e continuò ad applicare il trattato si estradizione dando seguito a richieste provenienti dal Brasile. Meno comprensibile appare la scelta italiana di non attivare procedimenti di conciliazione o di arbitrato, pur previsti in una convenzione bilaterale con il Brasile.
Il mutamento di governo in Brasile potrebbe ora preludere ad una nuova fase della vicenda e ad una maggiore propensione del Brasile ad adempiere agli obblighi del trattato. Vi sono però considerevoli ostacoli, derivanti soprattutto dall’esistenza degli atti formali adottati in passato. In particolare, non è chiaro se il decreto ministeriale di concessione dello status di rifugiato politico a Battisti, adottato nel 2009, sia ancora in vigore ovvero se esso sia stato invalidato ad opera del Tribunale supremo. Qualora esso sia in vigore, come parrebbe emergere dalle dichiarazioni di stampa, è verosimile ritenere che l’estradizione non possa essere concessa prima della sua revoca. È anche verosimile che tale revoca vada motivata e che essa sia soggetta a sindacato giurisdizionale. E non è facile immaginare che la revoca possa avere luogo senza alcun fatto nuovo che la giustifichi. La vicenda di Cesare Battisti, insomma, potrebbe risultare non ancora del tutto chiusa.