Il vangelo offriva una delle pagine più amate, quella del buon pastore che dà la vita per le sue pecore. Ma neanche la paginetta di Giovanni ha resistito al fascino dell’avventura di Agostino. L’africano ha stregato anche Francesco, dopo Benedetto. E come poteva essere altrimenti? Un peccatore, dall’intelletto straordinario e il cuore inquieto, paradigma dell’uomo di ogni tempo, costituiva un riferimento troppo ghiotto per un’omelia diretta ai figli del vescovo di Ippona riuniti in Capitolo, ma anche ai cristiani prigri e assopiti che Bergoglio proprio non digerisce.
Così nella Chiesa dedicata al Santo in Campo Marzio, dopo un sorso d’acqua, Papa Francesco, ieri pomeriggio, ha parlato della “santa inquietudine”, della sua inevitabile attualità, prendendo la vicenda di Agostino a modello di fede. E se Ratzinger non mancava di condire la sua predicazione di citazioni colte del dottore della Chiesa, strutturando la lectio magistralis secondo la logica inoppugnabile del discepolo di Ambrogio, attingendo a piene mani alla sapienza del retore dell’impero, Bergoglio fa un’operazione diversa: si concentra sull’esemplarità umana di Agostino, magnificamente sintetizzata da una delle sue frasi più celebri: “inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te”.
Per il pontefice argentino, Agostino da Ippona potrebbe essere uno dei neolaureati di oggi, tentati dal successo, affamati di vita, pronti ad essere sbranati dal sistema e dai suoi idoli. Un impero fatto di ricchezza, libertà autoreferenziale e verità scontate. Insomma uno di quelli cresciuti a pane e parrocchia, e poi progressivamente allontanatisi, nonostante le vaghe proteste materne, per l’impossibilità di resistere al fascino di balocchi e luminarie a buon mercato. Magari uno che una volta arrivato, con l’attico sulla piazza cittadina, il Suv parcheggiato nel box e le vacanze nell’atollo esotico, scopre il buco nel cuore. L’ansia di qualcosa di diverso e più profondo. Il bisogno di eterno.
Ecco, Agostino era uno così. Con un cuore non addormentato, né anestetizzato, in continua ricerca di senso. Un peccatore certo, innamorato delle belle donne e della vita bella. Ma anche un uomo alle prese con il proprio desiderio. E per fortuna allora non c’erano psicofarmaci o cocaina a disposizione per soffocare o reprimere l’impeto dell’anima. Aveva quella che oggi forse latita, la tensione all’incontro, l’urgenza di sentire un Dio vicino, “più intimo a noi di noi stessi”, la bramosia dell’assoluto.
Dalla sua aveva poi una madre che non ha mai smesso di piangere. Per Francesco l’inquietudine agostiniana era alimentata a lacrime. Quelle di Monica, madre pacificata ed indomita, capace di sfinire il Signore per la conversione e la felicità del figlio. Agostino, ha detto ieri il Papa, ha ereditato il seme dell’inquietudine dalla madre.
Da colei che senza sosta “ha cercato il bene della persona amata”, fino alle lacrime. Ci sono oggi donne disposte ad amare così? Capaci di piangere per la conversione dei propri figli (ma anche dei propri compagni o mariti), di commuoversi, attraversate dall’inquietudine dell’amore, quella che viene dopo la ricerca di Dio e l’incontro con Dio?
Forse abbiamo bisogno di donne capaci di versare lacrime per i propri figli, di inondare la terra di pianto e riempire il cielo di preghiere. Allora con tutta probabilità diventerebbero inutili le indagini sullo stato della fede, i tristi convegni ecclesiali sulla trasmissione del Vangelo, le strategie per trattenere chi dopo l’iniziazione cristiana fugge attirato dalle stelle cadenti. Abbiamo bisogno di donne di fede, per avere uomini di fede. Un buon punto di partenza per quella teologia della donna invocata da Papa Francesco.