Sono ancora tante le polemiche dopo la morte ieri di Bernardo Provenzano, il boss della Mafia deceduto a 83 anni. Per Provenzano non ci saranno funerali religiosi, come deciso dal questore di Palermo Guido Longo, per motivi di ordine pubblico. I familiari di Bernardo Provenzano potranno accompagnare in forma privata la salma nel cimitero di Corleone. Ma monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, come si legge su La Repubblica, ha dichiarato che “il cappellano del cimitero di Corleone o un altro sacerdote benedirà il feretro e ci sarà un momento di preghiera. Una preghiera non si può negare a nessuno”. Poi ha aggiunto: “Provenzano ha subito la giustizia umana. Non so se in punto di morte o se prima, durante la detenzione, si sia confessato o si sia pentito davanti a Dio. In punto di morte tutti i peccati possono essere perdonati dal confessore”. Monsignor Pennisi, facendo riferimento alla scomunica dei mafiosi da parte di Papa Francesco, ha spiegato che “nell’anno della misericordia tutti i sacerdoti possono assolvere dalla scomunica che non è una condanna all’inferno, ma una censura ecclesiastica: un modo per dire ‘stai attento’ “.
È morto di cause naturali Bernardo Provenzano, il boss di Cosa Nostra, arrestato e detenuto con il carcere duro dal 2006. L’esito della autopsia conferma la morte naturale per malattia dell’ex padrino di Corleone: ha voluto invece commentare, a riguardo di quello che è stato uno dei personaggi più determinati in negativo per le sorti della Sicilia, il vescovo di Palermo Corrado Orefice. «È chiaro, non possiamo che esprimere assolutamente una condanna, ma il giudizio spetta a Dio. La scelta di impedire i funerali pubblici per Provenzano va rispettata. Non posso che dire questo, per la mia sensibilità e per il mio compito di pastore, ma l’ultima parola spetta a Dio». Le parole arrivano dall’Ansa, a margine di un incontro interreligioso nel Palazzo Arcivescovile di Palermo: secondo Lorefice, «”Gli uomini fanno delle scelte e delle scelte sono state fatte, ma il giudizio spetta a Dio – ha aggiunto – ed è un giudizio che resta avvolto da un mistero che non possiamo che rispettare». Infine, sono parole anche di ferma condanna per quanto ha combinato Provenzano e i suoi compari lungo la lora funesta carriera criminale: «oggi arriva un messaggio chiaro: costruire il bene della città significa partire dalla legalità e da un cuore integro».
Per Bernardo Provenzano i misteri dopo la sua morte rimangono i medesimi: dalle possibili eredità nelle cosche di Cosa Nostra, con la mafia che ha certamente cambiato registro e obiettivi dopo le catture di Totò Riina e di Provenzano stesso. Ma non è solo questo il problema che resta per l’Antimafia e per le forze dell’ordine dopo la scomparsa per malattia dell’ex padrino di Corleone: i pentiti hanno infatti sempre parlato di grandi investimenti di Provenzano in cliniche, metano e supermercati. Un bottino complessivo incredibile che però non è mai stato trovato nonostante se ne parli da almeno 20 anni, con il mistero che ha assunto elementi quasi “mitologici”. Esiste davvero il bottino o tesoro di Provenzano e di Cosa Nostra dei corleonesi? La Procura di Palermo, stando a Repubblica, è convinta che la soluzione di tutto il denaro e l’eredità del boss mafioso stia nella trattativa tra Stato e Mafia che conservano ancora punti oscuri. Di volta in volta ritorna il refrain della trattativa, mentre del bottino se ne trova traccia nei famosi “pizzini” di Provenzano: si parla poi di beni sottratte alle coste e intestati a presunti prestanome die boss, ma resta difficile capire cosa e soprattutto se ci sono stati accordi con reparti deviati dello stato per rimanere in “tranquillità” nei suoi traffici, magari in cambio di qualche nome importante della mafia siciliana. Vi rimandiamo di leggere l’intervista che trovate qui sotto al generale Mori, che al Sussidiario ha lasciato un importante giudizio sull’intera vicenda.
Per Antonio Di Pietro “è stato un atto di debolezza” non revocare il regime carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano. Il boss della mafia è morto ieri ed era malato da tempo: da due anni era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. L’ex magistrato Antonio Di Pietro è intervenuto questa mattina su Radio Cusano Campus. E come si legge su tag24.it ha dichiarato: “Quello che penso io è quanto pensano molti magistrati, in uno Stato di diritto ha senso la detenzione se chi la deve subire si rende conto dello stato in cui si trova. Stiamo parlando di una persona, Bernardo Provenzano, che da un paio d’anni era incapace di intendere e di volere, di una persona che era entrata in coma e stava per morire. In quelle condizioni per me è stato un atto di debolezza, non un atto di coraggio, non revocare il 41bis”. E ha aggiunto: “Dire che Provenzano è stato tenuto dentro perché altrimenti qualcuno avrebbe potuto ammazzarlo equivale a fare confusione. Bisogna marcare la differenza tra giustizia e vendetta. La giustizia riconosce che bisogna restringere il più possibile spazi di autonomia e libertà a criminali. La vendetta è quel gesto in più che lo Stato fa per far pagare al criminale quel che ha fatto. La decisione di non concedere la possibilità di un carcere ordinario a Provenzano è stato più un gesto di debolezza che di coraggio”.
Lo abbiamo raggiunto ieri dopo la notizia della morte di Bernardo Provenzano e il generale Mario Mori, uno dei protagonisti indiscussi del periodo delle stragi negli Anni Novanta, con la profondo lotta alla mafia di Cosa Nostra, ha commentato la morte del boss mafioso. «molto più riservato di Totò Riina, era diverso da lui ma aveva un potere decisivo, quasi sostanziale. Era più lui di Cosa Nostra che non Riina che invece la sconvolse». Il potere secondo il generale Mori è quando distingueva i due: Provenzano amava esercitarlo non in modo smaccato e clamoroso, ma in modo molto più sostanziale. Inoltre, «Finché Riina è rimasto operativo, Provenzano aveva delle sfere di competenza in determinate zone del territorio siciliano. Dopo la cattura di Riina anche Provenzano ha avuto meno potere, perché il nuovo capomafia Leoluca Bagarella lo ha di fatto esautorato». Importante il passaggio in cui Mori ci racconta come – diversamente dall’opinione pubblica che prosegue imperterrita con la tesi della trattativa Stato-Mafia – secondo lui Provenzano non ha mai trattato con lo Stato: «Provenzano non ha mai trattato con lo Stato, e non c’è nessuno che possa sostenere e documentare che ciò sia avvenuto. Il boss aveva semplicemente rispetto per lo Stato perché sapeva che attaccandolo oltre un certo limite la reazione sarebbe stata violenta, con effetti devastanti per la mafia. io non ci ho mai trattato, e non c’è nessuno che a mio giudizio fosse in grado di condurre questa trattativa».
Continuano ad arrivare commenti alla morte di Bernardo Provenzano, il boss della mafia morto ieri a 83 anni a Milano. Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso sotto i da un commando mafioso nel 1982, scrive sul suo blog una lunga riflessione: “Bernardo Provenzano è morto. Non riesco a provare nulla. Ho sempre pensato ai mandanti dei delitti che hanno insanguinato Palermo e che hanno straziato la vita di centinaia di persone, molte volte innocenti, come a persone senza sguardo, anche se con lo sguardo potevano decidere un assassinio. Addirittura a persone senza volto, anche se i loro volti erano ansiosamente cercati e simulati (i famosi identikit) dagli investigatori migliori. Ho pensato a loro come fantasmi, anche se erano realissimi, piantati con prepotenza e ferocia nelle nostre vite e decisi a entrarci e a comandarle sempre di più. Li ho pensati avvolti in affetti immaginari, virtuali, anche se dotati di una loro indubbia carnalità: perché chi uccide e spezza esistenze e fa sciogliere nell’acido non può avere un figlio “vero”, non può fare l’amore “veramente”, non può provare le tenerezze che valgono la vita. Erano latitanti per lo Stato, certo. Ma io ho pensato a loro come a latitanti dalla condizione umana. Per questo quando il 10 febbraio del 1986 entrai nell’aula bunker del maxiprocesso di Palermo e scrutai le gabbie in cui Provenzano non c’era, ma che erano ugualmente zeppe di killer e macellai, non provai nulla, stupendomene come per incanto, perché mai lo avrei detto. Giustizia sì, capii quella volta; ma nessuna vendetta, nessun perdono, materia che richiede l’esistenza di qualcuno. Per questo anche oggi non provo nulla. Assolutamente nulla”.
Il giorno dopo la morte del boss, Bernardo Provenzano ha riempito ieri cronache e racconti sul più importante dei padrini corleonesi, assieme a Toto Riina. Se n’è andato dopo una lunga malattia e dopo gli ultimi anni chiuso nel regime carcerario del 41bis, che così tante polemiche ha scatenato. Ieri sera sono state rese note le dichiarazioni scritte del magistrato di sorveglianza che lunedì scorso ha detto “no” alla detenzione domiciliare per il boss morto ieri mattina. E sono molto importanti, «Nel periodo in cui era ricoverato presso l’ospedale San Paolo di Milano, Bernardo Provenzano “non solo ha ricevuto assistenza personalizzata costante e tutte le cure necessarie”, ma anche “le visite di moglie e figli ben oltre i limiti del 41 bis, con frequenza di due volte al giorno». Le motivazioni ora sono più chiare per cui Provenzano ancora non era stato liberato dal 41bis, anche se resta il dubbio su quanto effettivamente negli ultimi anni l’attività del boss di Corleone avesse legami con l’attuale Cosa Nostra. Di sicuro tutto ciò che aveva legame prima con Provenzano ora lo “scarica”, disonorando quello scomodo concittadino: stiamo parlando della cittadina di Corleone in Sicilia, patria nativa dei metà dei capi della Mafia siciliana nel Novecento. «Per Corleone la morte di Bernardo Provenzano è una liberazione», ha detto il sindaco di Corleone all’Adnkronos, Leoluchina Savona raggiunta dalla notizia mentre era in pellegrinaggio con alcuni religiosi a Santiago di Compostela. «Per la nostra comunità la sua morte è come la liberazione da un cancro, da una malapianta che affliggeva i cittadini».