Ci sveglierà, questo schianto di treni? Ci sveglierà, o ci lascerà in balia delle emozioni? Ci salverà dal cinismo di chi ne ha viste tante o dai brividi a fior di pelle?
Quel binario unico può trovarsi a pochi chilometri dalla propria casa, eppure la distanza, a volte, è abissale. Distanza dagli altri e da sé. Quegli articoli che cercano di strappare una lacrima con gli ingredienti che conosciamo già: doveva sposarsi, era andato a scuola col mal di pancia. Vale così poco, quella vita? Un articolo e via, fino alla prossima notizia? Tu, sei un nome in un articolo, una foto sul giornale, un post sui social, un lutto cittadino, una polemica sui sistemi di controllo? Tu, sei solo lo spunto per i nostri piccoli sfoghi?
Tu, che venivi dall’aeroporto di Bari e hai preso il treno al volo e hai chiamato tuo padre per avvisarlo che eri riuscito a prenderlo. Tu, come Edipo. Fra Tebe e Corinto o fra Andria e Corato. Da millenni ci arrabattiamo con gli stessi problemi. Il problema del destino. È già tutto scritto? Per il ragazzo greco si compì «l’oracolo che avrebbe ucciso il padre e sposata la madre»: «Non sono un uomo come gli altri, amico. Io sono stato condannato dalla sorte». Così lo ha descritto Pavese: «Ogni cosa che faccio è destino. Capisci?». E insiste: «Capiscimi, amico. Il mio destino non è stato di aver perso qualcosa». Non è appena il caso particolare: è che il caso particolare rivela una legge universale, un destino. Potevi prendere il treno di prima o il treno di dopo. «E invece no, c’era il destino. Dovevo andare e capitare proprio a Tebe». E allora «val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri?».
Non si tratta appena dell’atrocità di tragedie come questa: «No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subíto così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto?». Chi ci salverà dalla pietra tombale del destino? «La mia febbre è il mio destino — il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo — ho saputo sempre — di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi domando: chi fu Edipo?».
Chi sei tu, contadino travolto da una scheggia mentre eri nei campi? Chi sei tu, capotreno a poche settimane dalla pensione? Chi sei tu, trombettista quindicenne? Perché a quell’ora? Perché proprio tu? Tutta una vita, di quindici o di quaranta o di settant’anni, per finire così: che senso ha? Che senso ha per me, ora che lo so? Perché la legge universale è che è successo, che a volte succede, che succederà ancora. Succedeva nel ’44 a Milano, durante la guerra civile: «Perché quella donna nel tappeto? Perché quell’altra? E perché la bambina? Il vecchio? I due ragazzi?». Le vecchie parole di Elio Vittorini sono identiche al nostro sgomento: «Con l’uno o l’altro, egli aveva parlato tutta la sera, sempre conversava con chi si incontrava, e ora lo stesso parlava, conversava, come tra un uomo e un uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchiamo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi il corso, in un modo o in un altro, della nostra consapevolezza». Che tragedia, quando questa svolta non arriva. Con troppe parole ci diciamo che non ci sono parole, e nemmeno le lacrime arrivano più. Ci guardiamo angosciati, improvvisando incoraggiamenti. «Come se lui avesse chiesto: E perché loro? Mossero nello stesso modo la faccia, e gli rimandarono la domanda: E perché loro?».
Ci rimandiamo la domanda. Ciechi, impotenti. Chi ci sveglierà, da questo rigirarci le domande fra di noi? «Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre / di strappar dalle braccia / all’amico l’amico, / al fratello il fratello, / la prole al genitore, / all’amante l’amore: e l’uno estinto, / l’altro in vita serbar? Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal?» (Giacomo Leopardi, Sopra un bassorilievo sepolcrale antico).
Ora che mancano le parole, e manca l’emozione, e mancano i buoni consigli, e mancano i discorsi religiosi, e manca la fiducia negli uomini, e manca l’interesse per le chiacchiere sulle linee ferroviarie e sui colpevoli, e manca tutto, e mancano troppe persone all’appello, sarebbe tremendo se mancassi anch’io. Se mi lasciassi andare, prima del destino.
Guardavano la croce, guardavano quell’uomo che tanto conosceva il dolore e la morte. «Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri, / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più. / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri». Erano chiacchiere quelle di Ungaretti che piangeva ma sentiva il suo pianto che rimava con quello di suo fratello Dio? È così lontano dalle campagne coratine quell’uomo che gridava a suo padre «perché mi hai abbandonato?». Con l’affronto che un figlio si permette verso il padre, lo gridava anche Dante: «E se licito m’è, o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso, / son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?».
La tentazione della rabbia che non vede niente, delle autoconsolazioni, del giustizialismo, delle spiegazioni che non spiegano niente, del cinismo che non capisce niente, ceda al bisogno, al grido, al pianto. «Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime», ha detto una volta papa Francesco. Lacrime da pugliesi e da uomini: perché sulla strada per Corato ci siamo passati in pochi, ma sulla strada di queste lacrime ci passiamo tutti. È il binario unico che porta oltre Andria e oltre Corato, oltre la Puglia e tutte le parole: è la strada verso chi può risponderci. E non saremo certo noi. «La nostra risposta sia il silenzio o la parola che nasce dalle lacrime».