Cosa c’è nell’attenzione che i media e la gente normale hanno riservato al matrimonio tra il principe Harry e la bella Meghan? Certo c’è di mezzo la complicità con chi almeno una volta nella vita ha fatto lo sposo o la sposa; chiaramente gioca un ruolo non secondario la morbosità insita nella natura umana che s’affaccia al privato d’un neoduca di Gran Bretagna indagando, scrutando e cercando di carpirne segreti e non detti; senza dubbio dilaga anche una buona dose di sempiterna invidia sociale per le nozze da favola; c’è sì tutto questo, ma c’è qualcosa di più.
E non è solo la parabola di un ometto blasonato che moltissimi si ricordano sfilare tredicenne dietro al feretro della madre, morta tragicamente nel tunnel dell’Alma: un ragazzino che è dovuto crescere da solo, affrontando tutta la fatica di essere millennial e l’onere di essere una personalità pubblica e che, infine, arriva ad incontrare la bella ed emancipata principessa che lo redime e lo rende icona di un Impero, quello britannico, in affanno e timoroso di essere al capolinea. Oltre il dramma umano, oltre la curiosità dei sudditi e dei democratici degli altri paesi, tutti terribilmente orfani dei loro re e delle loro regine, quello che pervade l’atmosfera che si respira attorno a Windsor è la nostalgia. Nostalgia non di un’Europa aristocratica e al centro del mondo — forse anche quello — ma soprattutto nostalgia di una festa cui tutti si sentono, in fondo, invitati.
La verità è che il nulla in cui viviamo, il terrore che ogni ombra possa essere un male, un nemico in agguato, alla fine non ci convince. Come non ci convince il sentimento di frustrazione e di ingiustizia che anima le nostre più efferate pulsioni e che si trasforma facilmente in rabbia e violenza. La notizia delle nozze del Principe ridesta in noi una sorta di riscossa. Come se la nullità, la debolezza, la confusione e la cattiveria di questo tempo non fossero l’ultima parola, come se quelle nozze fossero anche per noi, anche per me. C’è una festa al Castello e la nostra umanità vuole andarci, vuole parteciparci, stanca di sentirsi maltrattata da chi illude e mortifica il nostro cuore.
Nell’Odissea Penelope, riconoscendo finalmente nello straniero che ha di fronte il suo amato marito, giustifica così la sua incertezza, il suo apparente cinismo: “Il mio animo aveva sempre timore che qualche mortale venisse di nuovo a ingannarmi con chiacchiere: molti, infatti, tramano astuzie malvagie e con esse stancano il cuore”. La percezione di trovarci di fronte ad una Festa vera, ad una favola vera, riapre improvvisamente il nostro desiderio di vita e — esattamente come l’Innominato — ci fa accorrere, ancora un po’ scettici, a vedere che cosa mai ci possa essere di nuovo “in questo maledetto paese”.
Harry e Meghan rappresentano così la caparra di quello che ci è stato promesso, di quello che ogni pastore errante dell’Asia risente nel cuore ogni sera guardando la luna. Fa impressione come anche nel Vangelo si usi l’immagine del banchetto nuziale per descrivere ciò a cui ciascuno di noi è chiamato: quasi che tutti quei riti, quelle emozioni, quelle ironiche risate che ci restituiscono tenerezza e intimità non fossero altro che il primo assaggio di quello che chiamiamo Paradiso. E che è donato gratuitamente a chiunque si lasci contagiare dalla musica, a chiunque la smetta di borbottare, accettando di alzare lo sguardo e di ricominciare a seguire.
In un tempo di Bravi che ci intimano che “questo matrimonio non s’ha da fare”, la nostra ferita resta incantata dal suono dei violini di Gran Bretagna e, come tutti i Vip, si veste a nozze desiderosa che un principe bussi alla porta con fra le mani una scarpetta. Pronta a farsi abbracciare da un’Amato di cui i giorni e le notti sono, semplicemente, pieni di nostalgia.