«Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state» (Guido Gozzano). La vita ha il sapore dell’incompiutezza. Ci giochiamo una partita, infatti, che c’entra poco con la favola dell’“impegnati e ce la farai”.
Io non so come abbia fatto lui a dormire l’altra notte, se già io ho fatto fatica. Dopo che gli è accaduto un fatto che, d’accordo, non sarà il primo e non sarà l’ultimo, ma proprio per questo, anzi, in altri tempi ci avrebbero raccontato un mito, perché un attimo ha svelato la tragica incompiutezza dell’esistenza. Parlo di Alessio Cerci. Sì, il calciatore del Torino e della nazionale. Ce lo scriverei io, un mito. Se fossi almeno Gramellini, o meglio ancora Euripide. Esiste già il mito di Circe; da oggi, perché no?, ci sarà quello di Cerci.
Ultimo secondo dell’ultimo minuto dell’ultima giornata del campionato di calcio. Sul 2-2 il Toro vedeva sfumare, rassegnatamente, la possibilità di qualificarsi per l’Europa League. Per un punto soltanto. Ma l’imprevedibile accade. L’arbitro fischia un rigore, al 93’. Cioè il destino mette Cerci sul dischetto del rigore. Gli offre, ormai inattesa, l’occasione dell’anno. Un attimo dopo l’arbitro avrebbe fischiato la fine. Del campionato. E il Toro allora sì, giustamente premiato, ci sarebbe andato, in Europa.
Forse non è chiaro, per chi non segue il calcio e per chi lo sottovaluta. Quel rigore era sì un duello fra un attaccante e un portiere. Ma non era solo quello. La realtà non era appena una persona davanti a una palla. C’era un’intera stagione da chiudere in gloria. C’erano vent’anni di astinenza europea di una squadra (epica). Erano due. Ma c’era un po’ d’Italia a guardarli. E nei suoi piedi, che erano solo suoi, tremendamente soltanto suoi, c’era un popolo intero, quello granata. E vent’anni, di fallimenti e di tradimenti, di cadute e di false partenze. Erano Achab e la balena bianca. Era il kairòs (che, per i meno esperti di greco antico, non è lo storpiamento del cognome presidenziale Cairo).
Ma il rigore, l’eroe, l’ha sbagliato. E dopo è scoppiato a piangere. L’avrà fatto per dieci minuti. Sono andati ad abbracciarlo i compagni. E poi sono andati gli avversari. Pepito Rossi. E Montella. E lui inconsolabile. Non l’hanno fermato le pacche sulle spalle, né forse le sagge parole del dopopartita. Perché in quelle lacrime c’era un anno buttato al vento. C’era lo schianto dell’aereo a Superga 65 anni fa, la tragedia in agguato tra i fiori di cinque scudetti consecutivi e di undici campioni in nazionale. C’erano, mischiate, le lacrime di Baggio vent’anni fa in America, e quelle di Sara Errani, poche ore prima a Roma, tradita dai muscoli nel bel mezzo della finale a casa sua: e quando le ricapita?
C’era il «male di vivere» di Montale. Che io ho sempre intuito a partire da due versi di un’altra poesia: «Ma nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case». Chi risponde a quel pianto? di quel bambino che ha perso quella palla? Alessio Cerci, domenica sera, era un bambino. Di un metro e ottanta, e velocissimo come Achille. Ma un bambino. Finché non capiremo lo strazio di quel pianto, non capiremo Montale. E dovremo chiudere i licei. Ma se guarderemo quel pianto, torneremo a scriveremo opere d’arte, perché le tragedie si inoltrano nel tragico dell’esistenza. Nell’ingiusto, nell’incompiuto, nell’ineluttabile. Nel«cavallo stramazzato», nel «rivo strozzato», nel rigore sbagliato.
Le tragedie non sono questione di libri: nascono fuori, nell’attimo in cui l’uomo è messo di fronte non appena a un portiere, ma al destino. Che si compie, inevitabile. E non sarà il bel tweet del gemello Immobile a ridargli quella palla sul dischetto. Perché ha ragione De Gregori a sentenziare che «non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore»: un giocatore no, ma un fatto sì, va giudicato. Non va attenuato, perché noi non siamo al mondo per consolarci: «perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga?» si domandava Leopardi. Né serve svicolare dal dolore, proiettandoci ottimisticamente in una palingenesi futura: “Si rifarà ai Mondiali”. Ma un successo ai Mondiali – che gli auguriamo, che ci auguriamo – non ripaga quel pianto. Perché un dolore non si toglie con una gioia, come un figlio vivo non compensa un figlio perso.
La ferita dell’eroe Alessio Cerci è quella dell’uomo che scopre che non basta essere bravo, né gli basta impegnarsi, ma che sente cos’è un fatto, l’evento da cui non si torna indietro, così diverso da ogni discorso (ne era certo il torinese Pavese: «nelle cose pensate manca sempre l’inevitabilità»).
Intanto la scuola, negli stessi giorni, sembra un’oasi protetta, senza sangue, senza lacrime definitive, dove tutti i fatti sono rimediabili. L’assenza programmata, l’interrogazione pilotata, la giustifica al momento giusto, l’interrogazione andata male con tanto di, immediato, “quando posso recuperare?”. Come se Cerci potesse chiedere: “posso tirarlo di nuovo, il rigore?”; oppure: “dài, arbitro, un altro quarto d’ora”.
Guardare le lacrime, senza annacquarle di consolazioni né scioglierle nel domani, ci fa sprofondare in un dolore antico: quello degli eroi che perdono e degli dèi che non si commuovono. I greci in quel rigore ci avrebbero visto chissà quali lotte nell’Olimpo: Giunone a maledire e Apollo a colpire a tradimento. E avevano ragione. Chi tifa Toro lo sa, come chi tifava Troia.
Liberi tutti di consolarti, e solo tu di rimanere inconsolabile. Piangi pure, Alessio: perché non è roba da uomini, stare di fronte a quelle lacrime: è roba da dèi. Da cieli che piovono lacrime. O almeno, come accadeva un tempo, da uomini tramortiti: «e tu, onore di pianti, Ettore, avrai».«Onore di pianti», non di pacche sulle spalle o di applausi. Chi paga, insomma, il pianto di Cerci, a cui fugge il pallone sul portiere?