“Uno scambio bello interessante, quello tra Julián Carrón e Joseph Weiler”: è questo, subito dopo l’incontro dedicato a “Abramo e le sfide del presente” che ieri ha riempito l’auditorium del Meeting di Rimini, il commento a caldo di Giorgio Buccellati, archeologo di fama mondiale ormai amico del Meeting. “Uno scambio anche molto ben costruito e ben condotto da Monica Maggioni. Due punti mi hanno colpito separatamente, anche se, nelle riflessioni che ora stanno suscitando in me, sono destinati ad incontrarsi — spiega Buccellati, che proprio quest’anno ha introdotto con Ignacio Carbajosa la mostra dedicata a “La nascita dell’io” in Abramo.
Ci dica, professor Buccellati.
Carrón ha parlato più di una volta di provocazione, come dell’appello che la realtà rivolge al nostro desiderio. Un concetto ripetuto più di una volta, perché in fondo il tema era la sfida del mondo moderno, così segnato dai temi antitetici del torpore, della noia, della passività. Ora, ha detto più volte Carrón, il nostro compito è quello di provocare e di lasciarci provocare, risvegliando il desiderio. E poi c’è l’accento sulla responsabilità posto da Weiler, una responsabilità anch’essa da risvegliare. La risposta sulla quale sono convenuti entrambi è la testimonianza: non c’è altro rapporto con la verità che non sia la libertà, ha detto Carrón.
Vada avanti, professore.
Giustamente la domanda è stata: da dove ripartire? Il modo in cui il mondo contemporaneo ci sfida è radicale. Da un lato si tratta di dire cos’è che dovremmo testimoniare, e cos’è che può provocare. Perché la provocazione e la testimonianza sono metodi, ma qual è il motore che li mette in moto? in cosa consistono?
Lei che cosa risponde?
Vedo due spunti. Il primo è la centralità del messaggio di Abramo. Il motore che corrisponde al suo vero messaggio è il concetto, che la Bibbia esprime con termini posteriori ad Abramo ma che sono altrettanto vivi ed eloquenti, del Dio vivente, una realtà autonoma e personale che si conosce. Se c’è veramente questa realtà, la provocazione è conseguente. Si è provocati dal Dio vivente. E la provocazione è un modo di arrivare a questa Realtà.
Può spiegare meglio questo punto?
Ci viene il aiuto il paragone della bellezza: la bellezza che “salverà” eccetera. Ma bisogna distinguere. Una bella donna non è “la bellezza” — termine che di per sé è astratto —, è una bella donna. Questa bella donna che ci sorprende e ci provoca è la bellezza, sì, ma in un senso vivente e totalmente imprevedibile per noi. Così è per il Dio vivente al quale Abramo ha risposto.
Altrimenti?
Altrimenti parliamo di un Dio “domestico”, che ci piace perché è prevedibile e non ha grandi domande… Invece per Abramo il Dio vivente è un grande dramma.
E il secondo punto che la interroga?
Sta nel metodo. Quando Carrón e Weiler hanno convenuto sull’importanza della testimonianza, pensavo: gli apostoli non avevano l’idea di fare qualcosa di culturale, di acculturare la gente, ma di comunicare con urgenza un messaggio eminentemente personale, quello del Dio vivente — Gesù — che li aveva sconcertati, perché era durato pochissimo, poco più di un paio d’anni, ma anche innamorati e cambiati. Ma tutta l’attività apostolica e missionaria che è seguita ha sviluppato moltissimo, con molta discrezione teorica e teologica, le vie per comunicarsi a realtà culturali diversissime e far conoscere la realtà del Dio vivo.
Quindi?
Per testimoniare, guardiamo — noi — a chi ci ha preceduto. La ripartenza è lo stupore di cui ha parlato Carrón, l’attimo un cui uno è di nuovo “preso”, afferrato. Poi viene la grande tradizione della Chiesa, che comincia con gli apostoli e arriva fino a noi.
Il mondo in cui viviamo, che proclama la vittoria del Nulla, non ha fatto terra bruciata di tutti i metodi?
Sì e no. Da un lato ha proposto un metodo suo, perché non è che il post-moderno non sia un metodo: lo è esso stesso, e quindi non può pretendere che non ci si opponga ad esso con un altro metodo. In questo senso il post-moderno ha fatto terra bruciata del servilismo nel seguire determinati sistemi e protocolli.
Dunque la testimonianza…
Non è e non può essere un metodo astratto, quanto un vivere la realtà cercando di comunicarla e trasmetterla in funzione della persona che si ha davanti. E’ il momento di riscoprire il “metodo” dei primi, non per seguire pedissequamente canoni o protocolli, ma per immedesimarci con la sensibilità degli apostoli. Cambiando noi stessi, si cambiano anche gli altri.
Sembra un metodo vecchio e nuovo al tempo stesso.
Sì. E’ nuovo sia perché affronta la sfida della terra bruciata dell’oggi, sia perché attesta in modo personale un Assoluto che è vivo. Ma è vecchio perché suo padre è Abramo.