Ieri il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, si è recato in visita privata al carcere Due Palazzi di Padova. Il testo della sua omelia.
Carissimi amici, sono veramente felice oggi di essere qui assieme con voi. Immagino che tutti voi avreste voluto essere a Roma: siccome qualcuno non può, allora ho pensato di passare io a trovarvi, per pregare un po’ assieme. E’ sempre bello pregare in compagnia dei poveri! In questo momento così solenne e commovente, vi voglio rivolgere delle parole che mi vengono spontanee dal cuore: non so se sono le più giuste, però vi assicuro che le penso per davvero. E vorrei che oggi diventassero la preghiera di tutti.
1 – La liturgia di questa domenica ci parla di risurrezione. Abbiamo sentito nella prima lettura la storia straziante dell’uccisione di sette fratelli, così convinti della loro fede da non aver paura di andare incontro alla morte. Il quarto fratello, ridotto in fin di vita e avendo visto già morire altri tre fratelli, dice: “E’ preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati” (2Mac 7,1-2.9-14). La sua fede — che, potremmo dire, è la sua storia d’amore con Dio — gli permette di aver chiara la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, di distinguere ciò che è infernale da ciò che ha il sapore del paradiso. Di distinguere la risurrezione dal restare per sempre nella morte. E’ la certezza che anima anche la storia dell’apostolo Paolo che, come voi, ha trascorso una parte della sua vita in carcere. Quando scrive agli abitanti di Tessalonica, ci tiene a confidare ciò che gli infonde serenità malgrado le tribolazioni procurate, subite: “Il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno” (2Ts 2,16-3,5). Paolo aveva un carattere forte, era intelligente come pochi altri, eppure non si accontentava mai di quello che aveva, era un inquieto. Questo gli permise di lasciare aperta la porta del suo cuore alla novità: Dio, un giorno, s’intrufolò dentro il suo cuore e scommise su di Lui. In quel giorno Paolo ha iniziato a diventare quell’apostolo inarrestabile che metterà a repentaglio la vita per testimoniare il suo incontro con Cristo. Si era lasciato attrarre dal fascino di quel Volto. Un Uomo, in quel caso Gesù di Nazareth, lo amò quand’era fragile, irruento, scontroso: Paolo non si dimenticò mai più che Cristo aveva scommesso sulla sua fragilità e gli dedicò il resto della sua vita.
2 – Il carcere è il luogo della fragilità. Qui dentro tutto è fragile: le storie, la libertà, gli affetti, i legami con le famiglie. E’ fragile la speranza: immagino sia molto facile, certe sere, perdere anche quella. Eppure, dentro questa fragilità ci sono tante cose che mi fanno pensare che Dio qui, come leggiamo nella santa notte di Natale, ha piantato la sua tenda.
Sono i vostri volti a raccontarmelo: il tempo del carcere li ha messi a dura prova ma la luce non si è ancora spenta. Rimane accesa perché qualcuno la tiene accesa: i vostri figli, le vostre donne, i vostri affetti. Qui dentro state portando avanti una battaglia per gli affetti: il mio invito è che la continuiate perché è solo con l’amore che l’uomo diventa diverso, anche migliore di quello che era. E assieme a voi, che siete la vera ragione del carcere, la speranza ha il volto di chi vi vuol bene in questo momento della vostra vita. Penso alla parrocchia di questo carcere: è meraviglioso sapere che, soprattutto in questo Anno della Misericordia, qui ogni domenica entrano gruppi di persone, assieme ai loro sacerdoti. E’ solo incontrandovi-dal-vivo che le idee possono cambiare, i pregiudizi cadere. Ringrazio quelli che fanno dono della loro storia nelle testimonianze: sento che quei racconti fanno del bene in chi li ascolta, anche se non è cosa facile raccontare le proprie cadute. Chi ci riesce, però, ti infonde la sensazione che la risurrezione abbia già iniziato a compiersi.
E assieme al vescovo Claudio e a don Marco con tutta la sua squadra, la speranza ha tanti altri volti: il mondo del volontariato, quello dell’imprenditoria, della scuola, dello sport. Non ultimo il mondo della Direzione e degli agenti di Polizia Penitenziaria. A questi uomini in divisa va il mio augurio più sincero: che possiate davvero portare la speranza qui dentro, come recita il motto del vostro corpo. Amici carcerati, Dio è generoso con voi: vogliate bene a chi vi vuol bene. E’ Dio che si nasconde nei loro volti.
3 – Leggo sui giornali di questi giorni di un bellissimo documentario, girato qui nel vostro carcere e in quello di Venezia, dal titolo: “Mai dire mai”. Lo dico a voi, amici: mai-dire-mai della vostra storia, domani potreste diventare quello che, forse, non siete riusciti ad essere nel passato. E’ un pensiero che mi piacerebbe portaste sopratutto ai fratelli condannati alla pena dell’ergastolo: una società civile non dovrebbe avere il coraggio di scrivere la parola mai sulla storia di nessuno. Da parte nostra — mi metto anch’io, come Chiesa, in mezzo a voi — non dovremmo, però, mai dimenticarci delle lacrime di coloro che piangono per delle nostre colpe. Diventare uomini diversi è prima di tutto saper chiedere scusa a coloro a cui abbiamo tolto la vita, offeso la dignità, messo a dura prova la sopportazione. Prima di tutto questo è rieducazione: mettere pace nella nostra memoria, saperci perdonare le gesta compiute, rimettere mano alla propria storia perché, assieme, si può ripartire.
Per intraprendere questo lavoro, approfittate di coloro che il buon Dio vi ha messo accanto: aiutateli ad esservi di aiuto. Non è facile mettersi a servizio dei poveri: qualcuno potrebbe anche servirsi di voi e dire “Vedi quanto sono bravo, ho trasformato anche la gente cattiva”. Voi, invece, aiutate i volontari a servire i poveri, perché dicano: “Grazie, Signore, che mi hai messo vicino un povero da amare. Non mi fa guadagnare, ma aiuta a diventare più uomo anche me”. Non dimenticate mai che i poveri sono i catechisti che Dio usa per spiegare cos’è la salvezza a coloro che pensano di essere già salvati. Don Primo Mazzolari, un parroco di campagna, un giorno scrisse: “C’è qualcuno che, per guadagnarsi il titolo di benefattore, per farsi pagare il servizio di recupero, lo butta a terra il povero e lo fa a pezzi, l’uomo”. A noi, invece, preme poter dire che l’uomo – sopratutto l’uomo che ha sbagliato – ci sta tremendamente a cuore.
Domattina (stamane, ndr), nella Basilica di San Pietro a Roma, si celebrerà il Giubileo dei Carcerati. Stamattina, dal vostro carcere, sono partiti 27 vostri amici, con un bel numero di volontari, con le vostre catechiste, i diaconi e col vostro Direttore. E’ un gesto molto forte che papa Francesco ha voluto fare sul finire di quest’Anno della Misericordia. Un anno che era iniziato con delle parole di affetto dedicate anche a voi: “(Le persone detenute) ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”. Qui, il vescovo Claudio, ha fatto ancora di più: ha reso la vostra chiesetta una della cinque chiese giubilari della Diocesi di Padova. E’ un segno bellissimo che dice più di tanti discorsi. Vi ringrazio, dunque, per la vostra testimonianza. Dico grazie sopratutto a coloro che, soffrendo, non smettono mai di sperare. Mai dire mai!
Mi affido alle vostre preghiere: ve lo chiedo col cuore. Aiutatemi a servire il Signore in questo compito così delicato che il Papa ha voluto affidarmi. Io mi ricordo di voi, mi ricordo di chi vi vuol bene per davvero. E prego Maria, la nostra madre, perché ci aiuti tutti a fare di questo nostro mondo una bellissima pagina di speranza per tutti gli uomini. Solo così, un giorno, potremmo morire in pace. Magari non saremo riusciti a cambiare questo mondo, ma nel cuore custodiremo la bellezza di averci provato fino all’ultimo. Facendoci compagni l’uno dell’altro.