La prima reazione sulla stampa alla morte accidentale della bambina pisana di un anno (accaduta il 17 maggio), chiusa in auto per otto ore al caldo, qual è stata? Usiamo alla svelta seggiolini con allarme per padri sbadati! Ed è un assurdo. Perché si tenta di sopperire con le norme e i protocolli o le app o gli allarmi ad una mente che vagola nell’empireo, presa freneticamente dal vortice postmoderno della corsa affannosa agli affari o all’impiego. Non è un problema del singolo genitore: è un vortice impietoso dentro cui viviamo senza accorgercene e che miete vittime, solitamente le persone più deboli o più ricattate dal lavoro. Come ben sappiamo, questo non è il primo caso: la cronaca ne registra numerosi purtroppo all’arrivare dell’alta temperatura, bambini dimenticati nelle auto dai padri o dalle madri sbadati, o depressi, o ansiosi, o ricattati dal lavoro. Due genitori proprio ieri a Crotone hanno lasciato il figlio di 4 anni in auto, chiuso a chiave, questa volta pare per andare alle giostre, e il bambino ha dovuto essere estratto dall’auto dalla polizia.
Il rimedio dei seggiolini con sistema d’allarme ricorda tanto quello di quando le acque del Po si ritrovarono inquinate da atrazina, e si pensò, invece di far cessare l’inquinamento, di far aumentare i limiti accettabili dell’atrazina nelle acque; o di quando ci fu il fenomeno assassino dei ragazzini che buttavano pietre dai cavalcavia sulle autostrade, e invece di capire perché ci fossero ragazzi così messi male nel cervello, si alzò semplicemente il livello delle paratie dei cavalcavia.
Insomma: troppo spesso invece di risolvere un problema ci si mette una pezza. Perché è più facile far finta di aver fatto qualcosa, che mettere le mani in problemi profondi, stagnanti, gravi, costosi. E si vorrebbe che ci fosse un’app per tutto; siamo la civiltà che si è fatta illudere che basta spingere un bottone “per avere tutto intorno a te”; invece non è così che va la vita. E le morti ce lo ricordano. Per poi dimenticarcene subito dopo quando la bella mente di turno ci tranquillizza parlandoci dei seggiolini intelligenti.
Che ricordano le scarpe intelligenti con sensore Gps che vengono vendute ad un prezzo accettabile così i bambini non si perdono, ma intanto hanno rinunciato alla privacy e i genitori a sorvegliarli e soprattutto a giocare con loro. E’ un problema grave: ci fanno rinunciare ad essere intelligenti perché vogliono venderci un’intelligenza artificiale. Che però non solo fa smettere di agire l’intelligenza del nostro povero encefalo ormai atrofico, ma anche funziona male. Perché rassicura laddove non si dovrebbe rassicurare ma far ragionare e creare un mondo meno ansiogeno, frenetico, ladro di tempo e affetti. Pensate di essere al sicuro col moltiplicarsi delle regole, dei protocolli, delle app, degli allarmi? Sbagliate. Si deve risvegliare il cervello. Ma non dipende solo dal singolo. Tuttavia il singolo può chiedere che svanisca questo vortice anestetico del cervello.
Io l’ho chiamato effetto Suv: quando si guida un’auto corazzata ci si sente potenti, sereni e riparati. E paradossalmente si abbassa la guardia; rischiando di fare più incidenti. Rassicurati dalle app, pensiamo di affidare alla tecnologia di un seggiolino quello che dovrebbe essere il rapporto col figlio, il nostro primo dovere, il nostro primo affetto e pensiero; ma rassicurati a dovere abbassiamo la guardia, e magari invece che sul seggiolino lasciamo il figlio sul bordo di una piscina, accanto ad un cane senza museruola. Perché ci siamo scordati delle priorità, perché non sono più il nostro Dna, ma le priorità oggi sono quelle del mercato e dell’azienda di cui siamo piccoli ingranaggi.
Già, perché tutta la nostra vita è un’azienda, in cui dobbiamo produrre, seguire i ritmi, attenerci ai protocolli; ma abituati a seguire i protocolli a lavoro, dove ci dicono di non fare altro che seguire le norme e non azzardarci a fare altro; abituati a seguire le rassicurazioni date dalle app che pare prevedano e prevengano tutto, abbiamo messo a riposo il cervello. Sulla rivista della Royal Medical Association, ho recentemente scritto che “what we do overshadows how we do it”, cioè “quel che facciamo oscura come lo facciamo”. Abbiamo smesso di fare bene le cose, basta farle e farsi prendere dal gorgo del fare; abbiamo smesso di farle bene, di godere di tornire bene una gamba di un tavolo o di scrivere bene un articolo di giornale: basta farlo, poi non importa. E abbiamo smesso di fare bene il mestiere di padre (o di madre), che nella società di oggi è al trentesimo posto nella hit delle priorità di un maschio adulto (o donna adulta). I risultati sono, senza colpa di un singolo, quello che vediamo: bambini soli, isolati, dimenticati. Un popolo solo, isolato, che ha dimenticato come si vive il presente.