Il viaggiatore a cui capitasse di appisolarsi nell’ultimo quarto d’ora del suo viaggio in treno dal capolinea di New Haven nel Connecticut si risveglierebbe d’improvviso nel luccichio di Grand Central Station a Manhattan (l’altro capolinea), avendo mancato le ultime due fermate intermedie.
Così potrebbe cominciare un lungo romanzo in stile dickensiano (se ne scrivono ancora, su New York, e resistono a tutte le mode, proprio come New York). Ma lasciamo perdere i romanzi; quelle due ultime “trascurabili” fermate prima di Grand Central si chiamano “Fordham University” e “Centoventicinquesima Strada”. A entrambe le stazioni scende una mescolanza di media e piccola borghesia con venature bohémien (gente per lo più giovane o almeno giovanile, di quella illusoria giovinezza con cui gli studenti contagiano i loro professori) e di “sottoprivilegiati” come usa dire qui (insomma, borghesia piccolissima e semi-poveri). E così, quando il treno irrompe dentro gli enormi tunnel di Grand Central, sono rimasti quasi soltanto i borghesi medio-alti, quelli che possono permettersi gli affitti semi-pornografici di Manhattan.
La stazione chiamata Fordham University si trova nel Bronx, e forse non moltissimi sanno che nel Bronx si trova la maggiore università privata di New York dopo Columbia e New York University (entrambe private), o più precisamente vi si trova uno dei suoi due campus, quello idillicamente chiamato “Rose Hill”. E in effetti, l’ambiente là è idilliaco: parco ben pettinato, edifici neogotici, un po’ come l’Università di Yale. Ma, come il solenne campus di Yale è circondato da quella zona abbastanza povera e abbastanza dura che è il centro di New Haven, così il campus di Fordham nel Bronx sorge a poca distanza dal luogo dove è scoppiato il massacrante incendio di cui ancora non si conoscono tutti i dettagli. Ma che non è troppo azzardato ipotizzare sia stato causato da un incidente a un impianto elettrico o conduttura del gas non a norma — insomma, da uno di quegli accrocchi con cui si arrangiano i più poveri, e che risultano particolarmente pericolosi nelle rigide notti d’inverno, come quelle che hanno già cominciato ad apparire a New York. Ed è possibile che l’incendio sia stato doloso (anche qui, due ipotesi: o un’azzardata speculazione finanziaria, oppure — sembra folle, ma sono storie di ordinaria follia — una vendetta di clan familiare o di gang giovanile).
Dicono (ed è vero) che il Bronx non è più quella sorta di cratere bombardato che era negli anni Settanta; adesso vi circola e vi lavora tranquillamente quasi un milione e mezzo di newyorchesi. Dicono (ed è vero) che il Bronx è la sede di alcuni dei luoghi più affascinanti e prestigiosi di New York City: oltre la citata Fordham University (con le sue eccellenze giuridiche e l’impronta studiosa delle sue origini gesuite), il mitico Yankee Stadium, lo Zoo (forse il più grande zoo urbano negli Stati Uniti), l’Orto Botanico.
Ma che significa poi tutto ciò, in una notte d’inverno come questa, quando le scale antincendio (che vanno zig-zagando sulle facciate di tanti edifici, anche a Manhattan, e in primavera-estate servono a berci una birra in compagnia o a sistemarci piantine) diventano il percorso di fughe disperate? Qui siamo pur sempre in uno di quelli che (con un linguaggio involontariamente di casta) si chiamano a New York “i borghi esterni” (the outer boroughs), ovvero le quattro suddivisioni amministrative (Il Bronx appunto, dove l’articolo determinativo è parte orgogliosamente integrale del nome, e poi Brooklyn, Queens e Staten Island) che fanno da corona a Manhattan: è rispetto a quest’ultima, appunto, che i primi quattro sono distinti un po’ schifiltosamente come “esterni”.
La maggior parte dei manhattaniti, quando visitano il Bronx, scendono alla fermata della metro accuratamente scelta e vanno svelti verso uno di quei luoghi privilegiati (ricordo che, in uno dei miei primi anni a Manhattan, quando mi attardai un poco passeggiando con una collega lungo una di quelle strade, un anziano afroamericano ci guardò sorridendo ed esclamò con bonaria ironia: “Ehilà, oggi abbiamo dei turisti fra noi!”).
Ecco: in notti come queste i rapidi cambiamenti di ambienti, di microcosmi interi, che costituiscono una delle grandi fonti di fascino di New York City, rivelano anche il loro risvolto crudele.