Venerdì ad Artogne, provincia di Brescia. Ma avrebbe potuto essere dappertutto. Lite per una ragazza. Succede, normale: i giovanotti hanno sempre lanciato complimenti, più o meno pesanti, alle belle fanciulle. Qualcuno reagisce, segue — le cronache non lo dicono, ma è implicito, ovvio — un breve scambio di insulti. Dopodiché, uno salta in macchina e si lancia contro i “nemici”; bilancio, sette feriti, nessuno grave, pare. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole. Anzi, stavolta se la sono cavata con poco. Tremila anni fa, per una spartana di nome Elena, si sono combattuti per dieci anni, se ne parla ancora oggi…
Salto di palo in frasca (a prima vista, spero di farmi capire dopo). Venerdì, nella scuola della periferia milanese dove insegno, mi sono sorbito due consigli di classe straordinari. Motivo: scambi di insulti fra alunni che sono finiti in scazzottate. Normale, succede. I ragazzi si insultano, sempre, è l’unico che modo che — molti di loro — conoscono di rapportarsi. Scherzano, dicono; poi, insensibilmente, l’insulto scherzoso scivola sul pesante, tocca la sorella o la mamma, o il colore o la razza, uno alza le mani, l’altro reagisce — “Non potevo non reagire”, ha detto uno dei miei alunni coinvolti nelle beghe di cui sopra —, si finisce nella rissa. Immediata, in classe; o fuori, premeditata. E allora spesso coinvolge gli amici, la banda, il gruppo (quante volte sento i miei alunni darsi appuntamento nel pomeriggio per “farla pagare” al tale o al talaltro).
Perché accosto questi due episodi, e scomodo addirittura la guerra di Troia? Perché c’è — c’è sempre stato, c’è ancora — fra i maschi della specie umana un modo di trattarsi istintivo, immediato, basato sul codice elementare del predone e del clan, della legge del più forte e dell'”occhio per occhio, dente per dente”, della rappresaglia e della faida. Poi, colpisce che oggi sia diventato quasi una moda usare come arma l’automobile, prima gli attentatori suicidi, ora gli squilibrati come a Münster o i bulli da discoteca. Ma mi pare che la radice vada ben al di là dello strumento: ci sono voluti secoli, millenni, per sradicare questa cultura istintiva, per civilizzare i barbari, per instillare — sempre a fatica — l’idea che le questioni si compongono davanti a un giudice. Ci sono voluti secoli, millenni per instillare — sempre a fatica — l’idea che quello dell’altro clan, dell’altro paese (scritto con la minuscola, non succedeva ancora pochi decenni fa che se i giovanotti del borgo vicino si azzardavano a venire alla sagra di casa nostra e a guardare le nostre ragazze finisse a cazzotti?), di un altro Paese addirittura, non è un “nemico” ma un uomo come noi. Ci sono voluti secoli, millenni, ed è un’opera che riprende a ogni generazione, come spiegava Ortega y Gasset: ogni generazione deve far fronte a una “invasione verticale di barbari”, i giovani che devono essere civilizzati, introdotti nelle conquiste della civiltà contro l’istintiva barbarie di cui sono portatori.
Ma se quest’opera di civilizzazione si interrompe? Se non crediamo più che abbiamo una civiltà da trasmettere? Se, come racconta Niall Ferguson in un’intervista sul Foglio del 31 marzo, nelle università americane non si possono più fare i corsi di cultura occidentale perché sono politicamente scorretti, come possiamo pensare che quest’opera di civilizzazione possa sopravvivere? Se il linguaggio dei nostri ragazzi è ridotto a poche espressioni elementari, e non hanno nemmeno più le parole per dire atteggiamenti diversi? Se qualunque chat su internet, se qualunque dibattito televisivo non è che una gara di insulti reciproci?
Intendiamoci, non sto facendo il laudator temporis acti, anzi: so bene che è sempre stato così, che la “Cavalleria rusticana” è sempre viva. Ieri e oggi. E, oggi come ieri, a combatterla non c’è che la pazienza. Quella dei monaci benedettini ieri, che mettevano sotto lo stesso tetto — racconta Giorgio Falco ne La santa romana repubblica — longobardi e goti e latini; quella — per fare un solo esempio — di Angelica Calò con la sua Fondazione: Beresheet La Shalom oggi, che fa salire sullo stesso palco giovani musulmani, ebrei, cattolici, drusi e cirkassi dell’alta Galilea. Quella insomma di chi, ieri come oggi, si coinvolge con i ragazzi, scommette sulla loro umanità, li aiuta a scoprire che è uguale in tutti. E allora, forse, il gesto istintivo della reazione, della vendetta immediata, dell'”onore” da difendere, che tutti portiamo nel Dna, può essere sconfitto da una logica diversa. Questa, mi pare, è la vera “lotta continua”.