Dall’inizio del ventesimo secolo si sono svolti nove conclavi. Gli annali dicono che sono risultati eletti sette papi di nazionalità italiana e due non italiani: gli ultimi. Due al momento dell’elezione erano vicini agli ottant’anni (Angelo Roncalli-Giovanni XXIII e Joseph Razinger-Benedetto XVI), due erano meno che sessantenni (Giacomo Dalla Costa-Benedetto XV e Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II), gli altri cinque vicini all’età tradizionalmente considerata “canonica” per il Soglio (65 anni).
Ancora: due soli erano a capo di dicasteri di Curia al momento dell’elezione (Ratzinger alla Dottrina della fede ed Eugenio Pacelli-Pio XII, che era segretario di Stato e camerlengo come lo è oggi il cardinale Tarcisio Bertone). Gli altri sette avevano come ultimo domicilio una grande diocesi europea: tre volte Venezia (Giuseppe Sarto-Pio X; Roncalli e Albino Luciani-Giovanni Paolo I); due volte Milano (Achille Ratti-Pio XI e Giovanni Battista Montini-Paolo VI); una volta Bologna (Dalla Costa) e una volta Cracovia (Wojtyla). Ma il gioco dell’identikit disegnato dalla storia – e non dalle classiche categorie vaticanologiche del tipo “progressista/conservatore” – può continuare. E può non rivelarsi solo un gioco soprattutto nelle mille dimensioni della Chiesa cattolica, dove la “statistica dello Spirito Santo” ha dinamiche uniche. E sarebbe un errore dimenticarle lasciandosi attrarre troppo dai vari “spiriti del tempo”: si tratti di un veto di Francesco Giuseppe nel 1903 o di un laser mediatico contro un cardinale scozzese nel 2013.
Per esempio: cinque fra gli ultimi nove papi erano nati “lombardo-veneti”. Il trevigiano Sarto, addirittura non era mai uscito dal Nordest fino all’elezione (ma non molto diverso è stato il cursus del bellunese Luciani, anche lui figlio di famiglia umile). Attenzione: Sarto vinse, a sorpresa il conclave 1903 per l’ultimo, clamoroso “veto” posto dall’Impero asburgico al segretario di Stato, il siciliano Mariano Rampolla, filofrancese (l’episodio è stato richiamato sabato scorso dalla dura nota vaticana contro il gossip pre-conclave). E il futuro Pio X era, non per caso, un italiano nato cittadino austro-ungarico: un pontefice “mitteleuropeo”?
Certamente lo sono stati, per origine, sia Wojtyla, polacco del Sud, ex orfano-operaio, sia il bavarese Ratzinger. Ma, quest’ultimo, figlio di una guardia municipale, dopo essere stato nominato arcivescovo di Monaco ad appena 49 anni, ha poi trascorso più di un quarto di secolo in Vaticano: e nel 2005 si è aggiudicato l’elezione come veterano della Curia. Il fenomeno-Wojtyla, invece, fu tale in tutto il suo curriculum: vescovo a 38 anni, a 44 primo arcivescovo di Cracovia non nobile, cardinale a 47. Non un giorno in curia, solo parroco, vescovo e professore universitario in Polonia: ma a Roma i cardinali che poi lo elessero l’avevano notato fin dal Concilio Vaticano: compreso Ratzinger.
E i tre “gran lombardi”? I genitori del bergamasco Roncalli erano coloni, quelli del brianzolo Ratti medio-borghesi, mentre il bresciano Montini nacque in una famiglia della grande borghesia professionale, da sempre in prima fila politica fra i cattolici popolari italiani. Tutti e tre arrivano in San Pietro con curriculum avvicinabili nello loro equilibrio.
Grande “uomo di macchina” Roncalli, un po’ a dispetto della futura immagine di “Papa buono”: giovane segretario del suo vescovo a Bergamo, poi a Roma come capo operativo della Propaganda Fide (il “ministero delle missioni”); diplomatico di frontiera in Bulgaria e Turchia e infine a Parigi, in un difficile dopoguerra. Poi il passaggio finale come pastore a Venezia.
Grande intellettuale Ratti: direttore della Biblioteca Ambrosiana a Milano e poi della Vaticana, ma con intervalli di diplomatico itinerante nell’Est Europa. Infine, per pochi mesi, arcivescovo a Milano. Più “politico” Montini, cooptato giovanissimo nella Segreteria di Stato di Pacelli sotto Ratti: ma nel frattempo il giovane sacerdote segue anche gli universitari cattolici italiani, osteggiati dal fascismo. Diventa uno dei due pro-segretari di Stato, ma Pio XII alla fine lo allontana: arcivescovo a Milano ma senza porpora, fuori dal conclave del ’58. Roncalli lo farà subito cardinale, mettendolo in “pole position” per la vittoria nel conclave del 1963.
Due papi nominalmente “italiani” (il ligure Dalla Costa e il romano Pacelli) erano invece di fatto “cittadini vaticani”: due nobili prestati fin da giovani alla tecnocrazia della Santa Sede, che allora era essenzialmente il servizio diplomatico. Dalla Costa, segretario di nunziatura a Madrid, arrivò a essere “sostituto” in segreteria di Stato. Ma il passaggio finale alla diocesi di Bologna – calderone sociale dell’Italia di allora – gli giovò: e si sentì quando denunciò l’“inutile strage” della Grande guerra. Pacelli, forse l’unico allevato per diventare pontefice, divenne segretario di Stato dopo essere stato a lungo ambasciatore a Berlino. E’ stato l’ultimo Papa interamente “curiale” (non un giorno di parrocchia o di diocesi) e detiene anche il record della velocità di elezione: al terzo scrutinio del primo giorno. A proposito: fu lui a decidere, nel ’39, di attendere 18 giorni prima di aprire il conclave, per dar tempo a tutti i cardinali del Nord e Sud America di arrivare a Roma.
Le statistiche più significative andrebbero certamente cercate una per una all’interno dei conclavi; eventi “misteriosi” per la dottrina cattolica; “segreti” per il diritto canonico; infinitamente complessi anche a vaticanisti e storiografi più ferrati. Alcuni possibili schemi interpretativi, tuttavia, sono visibili nella filigrana degli ultimi cinque conclavi. I due ultimi grandi papi italiani (Giovanni XXIII e Paolo VI) erano entrambi arcivescovi di storiche diocesi nazionali, ma erano ben conosciuti all’estero e dotati di una solida esperienza di Santa Sede. Ambedue ebbero molti cardinali non italiani fra i loro primi sponsor nella Sistina e riuscirono alla fine a vincere un’opposizione condotta (soprattutto contro Montini) essenzialmente da loro connazionali di Curia. Emergono entrambi, non a caso, da conclavi “aperti”, relativamente lunghi e combattuti nell’esito finale: 11 scrutini Roncalli (36 voti su 51), 6 per Paolo VI (57 su 81).
Giovanni Paolo I (eletto al quarto scrutinio dell’agosto 1978, in modo apparentemente plebiscitario, 101 su 111) fu invece il prodotto di un doppio compromesso preventivo: fra i big italiani (in particolare il “vecchio conservatore” Giuseppe Siri e il “giovane progressista” Giovanni Benelli) e fra la Curia e il grande episcopato internazionale. Ma la laboriosa mediazione – costruita prima del conclave – non resse la prova della fragile umanità del “Papa del sorriso”. La “rottura” Wojtyla – nel secondo conclave del ’78 – matura dopo l’inevitabile frantumazione delle “desistenze” fra italiani e dalla reazione altrettanto inevitabile da parte dei grandi arcivescovi europei: blitz vincente dopo i quattro scrutini del secondo giorno (99 su 111), con la Curia sbaragliata dal “Papa venuto da lontano”. Il curiale Ratzinger, otto anni fa, è il candidato-scudo di una Santa Sede che il lungo pontificato wojtyliano ha rafforzato e internazionalizzato. Si afferma già al quarto scrutinio, ma non proprio in modo scontato com’è sembrato ai più. Prevale – secondo ricostruzioni non sempre convergenti – anzitutto per mancanza di un reale “competitor”: Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, è malato e non entra in gara. La sua “controfigura” – il gesuita Jorge Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires – riesce solo a manifestare l’esistenza di una minoranza dissenziente rispetto alla “continuità curiale” di Ratzinger.
Forse in Sistina, otto anni fa, un concorrente – se non proprio un avversario – del cardinale tedesco si sarebbe potuto trovare: a cominciare dal capo dei vescovi italiani Camillo Ruini. Ma il veloce compromesso su Benedetto XVI conferma – forse – un paio di “regole non scritte” che potrebbero rivelarsi ancora valide nel 2013. Un papabile italiano “doc” deve avere esperienza romana, ma ne deve essere indipendente al punto da essere in partenza candidato di grandi arcivescovi mondiali. E quando i cardinali italiani (curiali e non) sono in forte disaccordo fra loro, la probabilità un Papa non italiano (meglio se un vescovo lontano e di battaglia come Wojtyla) sale vertiginosamente.
Lo sapeva bene Giuseppe Siri, non a caso soprannominato “il papa non eletto”. L’autorevolissimo arcivescovo di Genova, scomparso nell’89, partecipò a quattro conclavi, ricevendo voti in tutti. Ma nel ’58 aveva solo 52 anni e nel ’63 era in minoranza a fianco dei curiali italiani anti-Concilio. Nell’agosto ’78 fu il primo votato al primo scrutinio: ma solo per omaggio, a compromesso già raggiunto su Luciani. Nel secondo – a quanto riferisce la maggioranza delle fonti – gli mancava a metà una manciata di voti per il quorum di 75. Ma la “statistica dello Spirito Santo” giocò per l’ultima volta contro di lui.