Per fortuna anche Francesco Giavazzi ha avuto un sospetto sul finire del suo famoso articolo-recensione di un saggio di Ichino-Alesina. «È possibile che la mia interpretazione sia tutta sbagliata». Sì, è possibile che l’identificazione della famiglia italiana come modello di “familismo amorale”, secondo la definizione suggerita a Giavazzi da non so quale sociologo yankee (ma anche dall’ex ministro della difesa nel governo Prodi, il sociologo Arturo Parisi), sia tutta sbagliata.
Sì, è possibile che sia del tutto sbagliato, oltre che ridicolo, dedurre che è colpa della famiglia se in Friuli ci sono più donatori di sangue che in Sicilia. È possibile che non sia colpa della famiglia ma dello statalismo clientelare se oggi la spesa pubblica se ne va quasi tutta in pensioni. È possibile che il familismo amorale non sia nel dna di quel fatto elementare, naturale e vecchio come la storia del mondo che è l’alleanza dell’uomo e della donna in vista della procreazione e della creazione di legami duraturi.
È possibile, considerando il suo successo intellettuale, la sua libertà di pensiero e di movimento, la sua capacità di inventiva culturale ed economica, che la più “familistica” delle società umane, quella ebraica (che fonda tutta la sua identità sull’appartenenza e sul legame di sangue per via materna), sia una smentita radicale a tutte le teorie che periodicamente si riaffacciano sul teatro della storia per raccontare la bufala che la famiglia è un’istituzione retrograda e superata (da Marx al ‘68), piuttosto che il retaggio di una società immobile, antieconomica, minacciante l’eco sistema che gli zelanti hobbesiani di ieri e di oggi vorrebbero così delicatamente proteggere e conservare.
Già Ernst Hemingway, brillante affabulatore ma modesto pensatore, soleva notare non senza un pizzico di sarcasmo e non senza il sotteso proposito di celebrare di converso la propria e molto yankee immagine (narcisa) di eroe cinico e vagabondo, che gli italiani morivano nelle trincee delle due grandi guerre invocando “la mamma”.
Ciò ha dato seguito a una copiosa e razzistica letteratura secondo cui gli italiani sarebbero un branco di “fifoni” e “mammoni”. E questo specialmente per il fatto che l’italiano (come per molti versi l’irlandese o l’ispanico) ha sempre rappresentato una sua peculiare e, a dirla tutta, molto invidiata originalità rispetto ai paesi di tradizione protestante e anglosassone.
L’interpretazione tutta sbagliata di Giavazzi&C. è nel solco di queste radici. Che da una parte si nutrono dell’antico pregiudizio antitaliano dei paesi protestanti. Dall’altro è sintomatico del vecchio complesso di inferiorità esterofilo nutrito da certa intellighenzia che, putacaso ha svernato per un master a Harvard o è emigrata negli Stati Uniti, vorrebbe avere la pelle più bianca di quella che ha. E seduta nei club della buona società wasp o nei Cda di banche specializzate in prodotti tossici o in truffe di alta matematica finanziaria, poi magari si vergognano non dei proventi che incassano partecipando a un certo genere di economia speculativa, ma delle proprie origini, putacaso, siciliane o abruzzesi.
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È interessante l’apparire di questa letteratura apparentemente scientifica e in realtà molto connotata ideologicamente, proprio in un frangente storico che documenta il crac mondiale, la tragica perniciosità per la vita dei popoli, il cortocircuito internazionale, provocati da un’economia fondata sull’individualismo di una finanza indifferente alle ricadute sociali della sua spazzatura impacchettata in formule matematiche e in dividendi per manager che usano avere con sé molte sciantose, prostitute e amanti, e quasi mai famiglie vere, durature, stabili.
La famiglia, sia essa americana, italiana o pechinese, è un valore sociale e universale a qualsiasi latitudine. Valore inteso né religiosamente, né tradizionalmente, ma semplicemente come evidenza soppesabile scientificamente e statisticamente.
Tant’è che, come dicono tutte le rilevazioni sociologiche, da Mosca a New York, da Oslo a Roma, là dove la famiglia si disgrega (e sempre più si disgrega, è vero, ma questo fa parte del gioco e, soprattutto, del gioco di quel potere che per vendere la sua spazzatura ha bisogno di un mondo sempre più individualista, anonimo e in competizione selvaggia) non si produce più ricchezza e più felicità individuale e comunitaria. Ma esattamente il contrario, si produce più povertà per i singoli e più lande desolate nella società.