Luisa cerca sua madre. E’ stata adottata, è serena, ha una famiglia, un lavoro, forse un amore e amicizie. Ma quel legame le manca, quel volto vuole vederlo, riconoscersi. Chiede al tribunale che l’aveva affidata, da piccina, quando anziché attaccarsi al seno, dopo il parto, venne abbandonata in ospedale. Si può, una legge giusta lo consente. Ma nessuna legge può consentire che il cuore non soffra, non ricordi, non rimpianga. Il cuore della mamma di Luisa non cede, tramite i giudici nega alla figlia un contatto. Ma la ragazza non si rassegna, non può sciogliere quel grumo che le strozza la libertà vera di vita. Chi sei, madre mia. Perché. Ho bisogno di saperlo per essere io, donna, madre.
Scrive ai giornali, arriva in televisione, chiede almeno un segno. Che arriva, impietoso e crudele. Dopo 29 anni la madre prende carta e penna e manda una lettera, dove ricorda una violenza subita, e una gravidanza non voluta. Di più: tu, che dovresti essere figlia mia — scrive — sei solo e per sempre immagine di quel dolore, non voglio vederti né aver nulla a che spartire con te. “Non ho scelto io di chiamarti così né di averti”. Com’è possibile che le viscere non gridino, che il tempo non abbia lenito, che la carne non prevalga. Che umanità siamo, se un legame che è il più naturale può essere spezzato in un attimo, e mai più sentito come rimpianto.
Ho in mente le pagine drammatiche de La Storia di Elsa Morante. Una donna violentata da un soldato nazista, che mette al mondo un figlio, Useppe, che terrà stretto a sé, anche nella straziante sua malattia. Ho negli occhi le madri lacerate che approdano alle nostre spiagge, madri di figli di ripetute violenze. Se li stringono al collo, muoiono con loro, per non lasciarli. Perché il sorriso di un bimbo può cancellare la colpa di un padre indegno. Poiché non nasciamo a caso, ma per un disegno buono; checché ci sembri, lo strazio che Luisa avrà provato per quelle scarne e aride righe ci può dire qualcosa. Che la madre naturale l’ha messa al mondo, nonostante, comunque. E la vita è un dono che Luisa ha ricevuto, proprio da quella donna che non ha voluto esserle madre. Poteva dire no, interrompere la gravidanza, e avrebbero applaudito alla sua libertà di gestire il suo corpo.
Qualcuno lo penserà anche adesso. “Ma non poteva abortire?”. Non l’ha fatto, Deo gratia. E Luisa c’è, e quel nome gliel’ha dato una mamma e un papà che l’hanno accolta per amore. Perché non si è madre solo generando. Generare per amore è più difficile, ma piace di più a Dio. Così diceva don Oreste Benzi alle famiglie cui chiedeva l’accoglienza di bambini soli, malati. Si è al mondo con un nome, segnati con quel nome al battesimo, e Luisa ha una nome e una casa. Lei, sono sicura, saprà perdonare. E offrire una ferita così bruciante, per essere segno di amore e accoglienza.
Anche il perdono ci fa rinascere, e sa trasformare la sofferenza in tenerezza, pietà. Questa parola dimenticata, confusa con la rassegnazione o l’indifferenza, non è cristiana, ci arriva dai nostri antichi, maestri di vita, ma il cristianesimo l’ha posta come cardine della fede, chiamandola misericordia.