Ogni volta che guardo il volto di Lucia Annibali mi si stringe il cuore: la donna sfigurata dall’acido per aver troncato la relazione col suo ex fidanzato ha di nuovo una fisionomia, ma nonostante gli interventi chirurgici e i miracoli di chi l’ha curata, il viso è deturpato, segnato da una smorfia di dolore indelebile. Di dolorosa dolcezza. La corrosione non le ha toccato l’anima. Non ha gettato la sua giovane vita nella disperazione, nella rabbia, nella volontà di vendetta. È impressionante la sua forza discreta, il suo riserbo, insieme alla determinazione e alla ritrovata serenità. Come se la tragedia le avesse svelato il significato vero della vita. Che è grande e bella perché c’è, perché ci sei, perché sei amato. Non un amore malato, possessivo, che ti incatena, che ti distrugge.
È terribile che il dramma di cui è stata vittima sia nato dalla volontà e dalla mente del suo amato, dell’uomo che aveva scelto per la vita. Un uomo così vile da affidarsi ai sicari, e così sventurato da trovarli, pagarli, assistere allo strazio di un volto che aveva accarezzato e baciato per anni. Una stretta al cuore, perché è vero, è innegabile, quanto l’aspetto esteriore conti per tutti, per una donna di più, per una donna bella, abituata a sentirselo dire, ai complimenti, a presentarsi cosciente di questa grazia.
Quando Lucia dice “sono più bella adesso” si riferisce a una dimensione più profonda della persona, ricorre a una visione antropologica antica ed eterna, benché trascurata e negletta ai nostri tempi. Il bello e il bene vanno sempre insieme. È la ragione a dircelo, a suggerirlo agli antichi, a farsi certa, grazie al cristianesimo, dello splendore dell’anima. Bello è il volto di Cristo offeso e sanguinante, bella la croce, strumento orrendo di tortura. Bello è il bene che salva, e Lucia è diventata testimone, più che vittima, di questa verità. Ossessionati dall’immagine, non ci fa comodo pensare. E la sua delicata sofferenza fa pensare.
Il suo ex compagno, bell’uomo e rispettabile avvocato, è stato condannato a 20 anni di carcere, pena che lo accomuna ai biechi esecutori dello sfregio. Ieri ha tentato il suicidio, provando ad impiccarsi con le lenzuola alle sbarre della cella. Salvato dalla prontezza di un agente di custodia, è ricoverato, attende una perizia psichiatrica. Si può credere che si tratti di strategia, per alleviare la durezza della detenzione con uno sconto di pena o un trattamento migliore, per motivi di salute. Si può credere che è andata male, se si levava di mezzo c’era un posto in più nelle carceri e un numero in meno da mantenere.
Si può pensare che doveva morire, che la vendetta dev’essere totale da richiedere questa compensazione, per placarsi. La maggior parte della gente la vede così, leggendo la notizia sul sito del Corriere della Sera, una di quelle testate che utilizza le faccine, gli emoticon, per tastare la sensibilità dei lettori ai pezzi, alle notizie postate.
Faccine sorridenti, decine, centinaia di faccine sorridenti. Non impaurite, o tristi, o stupite. Sorridenti, beffardamente e cinicamente sorridenti. Se sono reali, e corrispondono ai sentimenti dei più, c’è poco da stare allegri. C’è perfino qualche audace, tra cui un ex senatore de M5S, che twitta un “peccato sia ancora vivo” o peggio, “doveva lavarsi la faccia con l’acido”. Giustizialisti fino alla morte, di una ben misera idea di giustizia.
Io provo anche per Luca Varani una stretta al cuore: che abisso di disperazione, che angoscia, che tormento, che dannazione può vivere un uomo così. Che indicibile rimorso; come può guardare il giorno levarsi, semplicemente pensare, parlare coi suoi compagni di galera. Non si immagina un orrore più grande di quella pece che spalma l’anima, e la soffoca. Bisogna pur dirlo, che qualcuno spera in una sua redenzione, bisogna pur dirlo, che nessun uomo mai è perduto, che anche per il più infame e ignobile degli assassini potrà esserci pace, e bellezza, e salvezza. Qualcuno dovrà pur ricordarlo, Delitto e Castigo.