A Papa Francesco piace la pioggia. E deve detestare gli ombrelli. Questo me lo rende immensamente simpatico, perché anch’io non sopporto l’appendice di stecche e stoffa sintetica che non permette all’acqua di scivolarti dalla testa al viso, di inzupparti vestiti e scarpe, di metterti quel pizzico di allegria addosso necessaria a bilanciare la grigia melanconia del cielo. Forse per questo sono destinata a perderne a decine, e a sopportare stoicamente gli attacchi di sinusite cronica. Ieri in piazza San Pietro si è visto un Papa bagnato dal maggio capriccioso. Ha sfidato le gocce, tolto la papalina ed effettuato, incurante dell’acquazzone intermittente, il solito giro infinito della piazza, trasformata in una selva di ombrelli. E poi ci ha anche scherzato su. Come se fosse normale rischiare un raffreddore per salutare sulla Jeep i 100mila fedeli arrivati da tutto il mondo.
È uno tosto. Viene dalla pampa, è abituato agli umori del tempo, avrà pensato qualcuno. Manco per niente. È un pontefice, il Vicario di Cristo e l’acqua se la deve prendere. Ricordate Benedetto XVI a Cuatro Vientos, in quella bufera estiva che mandò all’aria l’organizzazione della veglia di 2 milioni di ragazzi con il pontefice? Rischiava di vedersi crollare addosso il palco immaginifico e precario ideato dagli architetti spagnoli, ma non si schiodò dal suo posto, nonostante le suppliche del suo entourage, gli anni e le bizze dell’estate madrilena. I Papi sono così. Quando piove non scappano. Soprattutto quando i fedeli si beccano la pioggia.
Chiusa la parentesi meteo, veniamo al magistero. Interessante senza dubbio. Francesco sin dalla mattina ha deciso che era una giornata per pungolare. Due affermazioni, una nella cappella di Santa Marta e una sul sagrato della Basilica inondata, hanno dato il tono della giornata: “Non esiste un cristianesimo senza croce”, “Non si può dire Cristo sì, la Chiesa no”. Dichiarazioni assertive ma non immotivate, con più di un legame tra loro. La Chiesa non può essere una Ong, né una “organizzazione nata da un accordo di persone”, né tantomeno un’azienda verticistica in cui scalare posizioni: Bergoglio in due mesi e mezzo di pontificato ha marcato i confini della sua ecclesiologia, frutto senza dubbio della riflessione conciliare.
La chiesa come famiglia, ad esempio. L’ha evocata nella sua meditazione in Piazza San Pietro. È la sintesi del capitolo I della Lumen Gentium, quello dedicato dai padri conciliari al Mistero della Chiesa. Bergoglio ha parlato di un luogo in cui si ama e si è amati, nato dalla convocazione stessa di Dio, dal suo desiderio di comunione e di amicizia con gli uomini, istituito nel gesto supremo di amore che è la Croce. La Chiesa che sgorga dal “costato aperto di Gesù, da cui escono sangue e acqua” simboli dell’Eucarestia e del Battesimo.
È questa la Chiesa di Francesco, la grande famiglia dei figli di Dio, “santa e sempre bisognosa di purificazione” che nel “suo seno comprende i peccatori”, come recita il paragrafo 8 della Costituzione Dogmatica conciliare. Una famiglia umanissima. Con difetti, imperfezioni e peccati, persino quelli del Papa, come ha ricordato con profonda umiltà lo stesso Bergoglio.
Una famiglia però dove impera la Misericordia di Dio. Il suo eterno e infinito perdono. Una Chiesa che può gloriarsi solo dei suoi martiri e della Croce. Che non deve cedere alla tentazione del trionfalismo. Ecco, proprio questa cosa il Papa non la sopporta: il borghesismo cristiano, il compiacimento di chi pensa di essere sistemato e affermato, con gli uffici in ordine, il successo a portata di mano, i numeri e le autocelebrazioni. Perché ha ricordato, a volte, il peccato è persino un’opportunità: nell’umiliazione e nel fallimento ci accorgiamo della bellezza di Dio. E della sua infinita misericordia.