Giornata negativa, in Italia, sul fronte dei diritti dei lavoratori: in appello, la condanna a 16 anni e mezzo inflitta ad Herald Espenhahn, ad della Thyssen, è stata ridotta a 10. Sono state ridotte anche le pene stabilite in primo grado a tutti gli altri imputati. Si è ritenuto che «non ci fu dolo». I familiari dei sette operai che nel2007 persero la vita nell’incendio provocato dall’assenza di misure di sicurezza adeguate erano presenti nell’Aula della Corte di Torino al pronunciamento della sentenza. Non volevano credere alle proprie orecchie. Molti sono esplosi in lacrime, molti altri hanno iniziato a gridare «maledetti».Tutti insieme hanno deciso di occupare l’aula, fino a quando non fossero stati messi in contatto con qualcuno del governo. Alla fine, il procuratore Guariniello li ha convinti a desistere e a proseguire nelle sedi opportune la loro battaglia. Tra questi, c’era anche Antonio Boccuzzi. Attualmente deputato del Pd, è l’unico degli operai coinvolti nell’incidente scampato alle fiamme. Con lui abbiamo commentato, oltrea alla sentenza, l’altro triste episodio di ieri: la morte di un operaio dell’Ilva di Taranto, e il ferimento di un secondo, mentre stavano effettuando un intervento di manutenzione alla batteria 9 delle cokerie.
Come avete vissuto la sentenza di ieri?
Con dolore, rabbia, disperazione, delusione. Non troviamo altre reazioni possibili alla decisione di smontare la sentenza di primo grado.
Come si spiega tale decisione?
In nessun modo. Nulla, nel corso del processo d’appello, aveva lasciato intendere che le cose sarebbero andare così.
Cosa vi aspettavate?
Eravamo francamente convinti che sarebbe stata rispettata la sentenza di primo grado.
E ora?
Speriamo che la vicenda approdi in Cassazione. Del resto, è stato il procuratore Guariniello, convincendoci a desistere dall’occupazione, ad assicurarci che la suprema Corte se ne interesserà. Ci ha, inoltre, comunicato l’impegno del prefetto di Torino a riceverci. Continueremo, dal canto nostro, a chiedere al presidente della Repubblica, che sulle questioni del lavoro ha sempre manifestato una certa sensibilità, di non abbandonarci.
Una volta che è stata pronunciata la sentenza, la sorella di una delle vittime ha denunciato come, quella notte, siano stati mandati a spegnere l’incendio dei “ragazzini”.
E’ vero. Anch’io facevo parte di quel gruppo. Anch’io andai a spegnere l’incendio. E, se le misure di sicurezza fossero state adeguate, i miei colleghi non sarebbero morti. Si figuri che quella notte l’estintore che utilizzai non funzionò. Era scarico.
Perché andaste a spegnere l’incendio?
Per abitudine.
Questo non è normale.
Certo che non lo è. Ma l’abitudine era determinata, in primo luogo, dalla nostra affezione al posto di lavoro (peccato che non sapevamo di difendere qualcosa che neanche era più nostro: la Thyssen stava, infatti, trasferendo gli impianti da Torino a Termini). Ma all’affezione si aggiunge il fatto che si trattava di una prassi sbagliata, indotta dall’azienda, che riteneva normale che le prime operazioni fossero condotte da operai ai quali non era stato fatto neppure seguire un corso antincendio. Già in altri casi, infatti, eravamo stati noi a spegnere gli incendi che, di tanto intanto, si sviluppavano all’interno dei cantieri. Anche quella volta, sembrava un focolaio come tanti altri.
E invece?
E invece esplose un flessibile che iniziò a spandere olio ovunque. L’olio, assieme alle fiamme, scatenò l’inferno. E noi non eravamo nelle condizioni di gestire una situazione del genere.
I suoi colleghi morirono, lei si salvò. Cosa accadde in quegli istanti?
Io riportai delle ustioni di secondo grado sulla fronte. Ricordo che nel momento in cui ancora stavo cercando di fare qualcosa, mi si iniziò a sciogliere l’orecchio destro. Il calore era diventato insopportabile, ma riuscii a fuggire. E se questo è quello che ho vissuto, si può soltanto immaginare quello che è accaduto ai miei colleghi. Chi ha preso la decisione in Appello, avrebbe dovuto tenerlo a mente.
Ieri, all’Ilva, è morto un operaio e un altro è rimasto ferito.
Guardi, in Italia abbiamo la legislazione migliore a livello europeo. Ma non viene applicata. Si figuri che alcuni decreti attuativi non sono stati ancora emanati dopo 5 anni dalla firma di alcune leggi in materia di sicurezza.
Di chi è la responsabilità?
Ce ne sono tra tutti i soggetti in gioco, a partire, indubbiamente, dalla politica. C’è, per esempio, un serio problema di ispezioni. Il numero dei tecnici della sicurezza è estremamente esiguo, e non è possibile procedere con interventi qualitativamente e quantitativamente congrui. A questo si aggiunge una scarsissima considerazione delle Rls, i rappresentati dei lavoratori della sicurezza che, spesso, scontano una certa solitudine, e non sono messi nelle condizioni di rispondere alle esigenze dei lavoratori.
Sul fronte legislativo, cosa suggerisce?
Cercherò di portare avanti delle proposte già presentate nella passata legislatura. Credo, anzitutto, che si potrebbe ridurre la contribuzione Inail a carico delle imprese per quelle virtuose. Occorre, inoltre, rivedere il testo della legge sui risarcimenti che, in certi casi, sono un insulto ai familiari, come quando il massimo che si può ottenere è il pagamento delle spese per il funerale. Deve, infine, affermarsi la cultura secondo cui un’impresa che rende protagonisti i lavoratori e rispetta le regole non ha problemi di produttività.
(Paolo Nessi)