“L’insondabile certezza della Tua Presenza è più forte di ogni mio costruito dubbio.
E la percezione della Tua esistenza alimenta le profondità della mia rabbia”.
Con questo dittico, libero e senza regole, vorrei salutare Franca Rame. Non parlando di lei, ma facendola parlare. È lei, Franca, che infatti non ha mai potuto sopprimere la certezza dell’esistenza di Dio ed è sempre lei, Franca, che non ha mai smesso di lottare – come Giacobbe nel libro della Genesi – con questo Padre degli uomini e dei peccatori. Non serve aver letto le sue opere, né aver seguito passo passo la sua carriera per convincersi di questo: occorre solo fermarsi un istante e avere il tempo di guardare il ricordo che di lei hanno fatto il marito Dario e il figlio Jacopo il giorno del suo laico “addio”. Entrambi attraversati da una religiosità profonda, incredibile, che quasi sembrava in contrasto con l’atmosfera dell’evento allestito dai “compagni” per una delle loro eroine maggiori.
Era qualcosa di più di una commemorazione quel funerale, con Dario Fo che rilegge la Genesi a partire da un improbabile apocrifo in cui l’uomo – anzi la donna – sceglie la conoscenza e l’amore carnale invece che l’eternità, e con il medesimo uomo che si ritrova – per le proprie scelte – a dover pagare il prezzo più alto di ogni creatura: un’esistenza in balìa della morte.
Il monologo è eccezionale, efficace, ricco, come tutti quelli del teatro di Fo e della Rame. Ma questa volta c’è di più. Perché non solo Fo esprime tutta l’ideologia gnostica per cui il mondo sensibile, il mondo delle cose, non può essere la porta del mondo eterno, il mondo di Dio, ma anche – e soprattutto – perché, come in una moderna liturgia della Parola, per spiegare il presente ricorre alla prima lettura, alla lettura dell’Antico Testamento. La morte, insomma, trova una sua spiegazione non nelle parole degli uomini, ma nella Parola di Dio. D’un tratto lo spettacolo si trasforma in qualcosa di diverso, in una performance che aspira a diventare liturgia, che ha bisogno di essere liturgia per non staccare il dito debole e stanco dell’uomo libero dalla mano di Dio.
Ecco infatti come finisce il cammino di chi ha urlato con rabbia la propria furia contro la Chiesa, ecco come si concludono le campagne fatte di diritti e di appelli, di indignazione e di orgoglio anti-clericale: col libro della Genesi. Con quel monologo recitato a braccio Dario Fo ha rimesso le cose a posto, ha ridato dignità religiosa a Franca, riconsegnandola al mondo dal quale questa donna, appassionata e illuminata, proveniva: il mondo di Dio. Perché Franca Rame ha scelto la conoscenza, ha scelto la distanza dal Padre, solo perché desiderava l’eternità, non perché rifiutasse Dio. La morte non è stata un prezzo da pagare per essere liberi di conoscere, la morte è stata uno dei fatti che hanno segnato la vita della Rame e che la hanno accompagnata davanti al volto di Dio.
Franca Rame è morta e Dario Fo l’ha dunque accarezzata con l’unico mantello che nella loro vita di artisti non li ha mai abbandonati, il libro sacro delle Scritture bibliche. Franca e Dario, durante quel commovente addio, più che moderni gnostici, maestri del sospetto e dell’ideologia, sono apparsi in tutta la loro verità: credenti in lotta, semplici credenti alle prese con la loro ideologia che – di fronte alla morte – è saltata, aprendo lo spazio solo alla parole della Fede, quella stessa fede che essi avrebbero voluto più volte nella loro vita rinnegare e rimuovere.
Ma nessuno può rimuovere il proprio gruppo sanguigno e lo stesso Jacopo, che doveva essere il frutto più maturo del loro comprovato ateismo, ha mostrato qualcosa di straordinario che, per essere compreso, ha addirittura bisogno di una piccola lezione di filosofia della religione. Baruch Spinoza, infatti, fu un filosofo del Seicento, ebreo in dissidio con la propria tradizione, che disse – con grande semplicità – ciò che molti non avrebbero poi avuto il coraggio di dire per secoli: se si potesse togliere Dio dalla Bibbia, se si potesse eliminare il divino e il soprannaturale da quelle righe, ciò che rimarrebbe sarebbero solo la giustizia e la carità. E Franca è stata descritta da Jacopo alla maniera di Spinoza: senza alcuna parabola soprannaturale, ma piena di giustizia e di carità.
Così, dopo averne ricordato sforzi e battaglie, presentando il comunismo come la più bella delle filantropie umane, Jacopo ha sentenziato che Dio è comunista e donna, ossia che vuole bene agli uomini e se ne prende cura, chiudendo in maniera esemplare un rinnegamento della fede tradizionale che, invece, è testimonianza di un grido fortissimo al Cielo e alle Stelle di quel cattolicesimo da cui la famiglia Fo ha sempre avuto così tanta cura di discostarsi.
Su queste paradossali e ironiche antinomie si è svolto l’addio a Franca Rame. Mentre Dario e Jacopo negavano la tradizione cristiana, le loro parole e i loro gesti consacravano Franca come l’ennesima figlia del cristianesimo che con Dio ha sempre fatto i conti, lottando e inciampando, forse a volte prigioniera della rabbia, forse rasentando la blasfemia, ma senza mai rinnegarLo. E forse è proprio questo il segreto di Pulcinella dell’ultimo Nobel italiano per la letteratura e della sua compagna di vita: non aver mai posto resistenze alla Grande Presenza di Dio, muovendosi sempre sotto la Sua ombra come tutti i grandi della letteratura italiana. Dimostrando così che non è la politica ad essere irresistibile, non è il comunismo e neppure lo sono le grandi battaglie per un mondo migliore, ma quell’amore gratuito e solenne, fedele e discreto che – appunto – porta il nome di Dio.
Così anche noi, nel salutare Franca Rame, ci troviamo pieni di consolazione e di gratitudine: nessun nostro peccato e nessuna nostra ideologia potrà mai cancellare il nostro amore e la nostra riconoscenza per il Dio dei nostri Padri che sempre ci perdona e ci aspetta. Quello stesso Dio che, sul far della sera, ha abbracciato Franca e le ha dato, sicuramente, qualche piccola ripetizione.