Se un qualsiasi lettore volesse approfondire la storia di Pasquale Valitutti, l’anarchico in sedia a rotelle che ha devastato Milano il 1° maggio con gli incappucciati e che è costretto ad andare alle manifestazioni No Tav — per sua stessa ammissione — con il Frecciarossa, questo lettore si troverebbe dinnanzi ad una situazione simile a quella descritta da Pirandello nel suo Saggio sull’umorismo del 1908 in cui il prosatore siciliano cerca di andare oltre la facile ironia che una donna anziana troppo imbellettata genera in coloro che la osservano per scoprire, al di là delle apparenze, il dolore che la anima e che la spinge a truccarsi in quel modo.
Dietro ogni situazione che sembra grottesca o surreale c’è sempre la storia di un’umanità ferita, un’umanità che dovrebbe generare in noi una sorta di sintonia ultima con i protagonisti di queste vicende dal momento che il dolore che essa cela è sempre molto simile al nostro. Fa impressione, a tal proposito, come il cognome di quest’uomo sembri emerso da un ipotetico quinto romanzo di Svevo, dove i personaggi portano sempre nomi emblematici e profondamente significativi: davvero il dolore di Pasquale “vale per tutti”, è di tutti, e per questo è veramente difficile giudicarlo o irriderlo perché, facendolo, giudicheremmo o irrideremmo una parte di noi.
Eppure quel dolore si può descrivere in maniera molto nitida e con parole molto chiare: esso sorge nel cuore tutte le volte che il nostro bisogno è così grande che la risposta — essendo troppo evidente — non può altro che essere o abbracciata oppure negata per il fatto molto eloquente di essere mentalmente e ideologicamente inaccettabile. Per Valitutti il bisogno di prendere quel treno è così chiaro ed imponente che non può fare altro che accettarlo o contestarlo, aggrappandosi ad una fantomatica libertà di scelta che ogni viaggiatore disabile dovrebbe poter esercitare nei confronti dei diversi treni disponibili.
La risposta a quello che quest’uomo cerca c’è, esiste, e consiste proprio in quello che lui contesta. Non si può evitare di pensare, allora, a tutte quelle volte che cerchiamo amore e abbiamo un matrimonio da poter vivere (oppure una consacrazione che — poi — è la stessa cosa), oppure a quelle volte in cui cerchiamo una compagnia e abbiamo un amico inatteso di fronte, o a quelle volte che cerchiamo un radioso futuro e abbiamo un esame o una tesi da affrontare.
La risposta, in tutti questi casi come in molti altri, è lì davanti a noi, è evidente, eppure viene violentemente rifiutata perché non coincide con il nostro disegno, con il proprio progetto mentale, con quello che abbiamo ideologicamente deciso essere “il nostro bene”. Tra i più giovani questa cosa è di una chiarezza sconcertante: hanno tutta la realtà davanti — hanno la felicità a portata di mano – eppure continuano a guardare sé, a specchiarsi continuamente nei propri malesseri o nei propri sogni, senza aprire gli occhi a quello che c’è.
La vita, così, diventa un carcere provvisorio in attesa della libertà. Una libertà che è fatta coincidere con la data della maturità, della laurea, del matrimonio, del posto di lavoro adeguato, una libertà che è sempre figlia di un ricatto, di un’emozione che l’uomo brama di poter provare dentro la realtà e che, molto semplicemente, si potrebbe chiamare “realizzazione”, “compimento”.
Pasquale Valitutti cerca per la propria vita questo sentimento così esaltante e così nobile come il senso di essere compiuti, realizzati e proiettati dentro al bene. Egli identifica tutto questo sapore con una serie di circostanze che, una volta realizzate, sarebbero in grado di produrlo nella sua vita e non ammette che ci sia altro, oltre quello che ha già fissato, che possa donargli davvero ciò che cerca. Per questo ha vergogna a salire su quel treno, per questo è arrabbiato ogni volta che deve farlo, perché non accetta che quel treno, come la moglie o i figli, l’affetto che provo o il lavoro che devo fare, non sono ostacoli al desiderio che ognuno di noi si porta dentro, ma sono le risposte di un Altro. Più passa il tempo più è evidente che senza la fede, senza il riconoscimento di un’altra Presenza che opera nella vita oltre me, la realtà smette di essere un’occasione, una proposta al cuore, e finisce per diventare una gabbia, un carcere, un ostacolo da combattere con la mia ideologia.
L’uomo di tutti tempi, e quindi anch’io, ha sempre ragionato e “sentito” la realtà come Pasquale, i Farisei percepivano Cristo stesso in questo modo e perfino le comunità cristiane, dinnanzi al nuovo che avanza, non fanno altro che arrabbiarsi, giustificarsi, nascondersi dietro sagge e corrette parole. Pur di non ammettere il punto, pur di non ammettere la verità: il fatto che al dolore della vita, alle difficoltà di una proposta o di una comunità, una risposta c’è. E, per lo più, è sempre davanti ai nostri occhi. Ma non è quella che pensiamo noi. Questo, in definitiva, significa educare: accettare il reale come “proposta” di un Altro; questo è, in estrema sintesi, anche quello che è mancato agli incappucciati di Milano il primo maggio: la consapevolezza che quello che stava avvenendo in Fiera, esattamente come il Frecciarossa di Valitutti o il tuo matrimonio, stava accadendo per loro. Cioè per sé, per tutti.