Già il modo comune con cui definiamo le omelie che i sacerdoti (ma anche le più alte cariche della Chiesa) tengono durante le liturgie, la dice lunga di quanto esse siano da tempo squalificate: “Prediche”. Benché l’accezione originaria del termine non sia negativa, tale parola ha assunto significato tutt’altro che positivo: una morale, una lagna, una serie di raccomandazioni buoniste. Omelia, secondo il vocabolario Treccani, sta per “esposizione e commento di passi della S. Scrittura, spec. del Vangelo della messa del giorno, ma estesi anche alle altre letture della messa; “predica, sempre secondo Treccani, sta per “annunciare, dichiarare pubblicamente la legge divina: p. il Vangelo, le verità della fede, la buona novella”. Dunque significato simile, ma intenzioni diversissime. E’ anche la parte della messa che più infastidisce e annoia, nella maggior parte dei casi. Tante belle parole, pochissima vita reale, elucubrazioni lontanissime dalla quotidianità, ma soprattutto incapacità di entusiasmare alla vita cristiana i presenti. C’è chi è bravissimo a commentare i passi sacri, c’è chi parla del più e del meno con forte dose di buonismo, ma alla fine quello che fa l’omelia potrebbe essere un qualunque conduttore televisivo, un politico, un amico del bar.
La crisi in questo senso è grave ed è una delle maggiori ragioni che allontanano le persone dalla messa, anche coloro che rimangono credenti. Non hanno tutti i torti. L’allarme è concreto ma sembra che i sacerdoti che se ne rendano conto siano pochi, quasi che aspettassero solo la domenica per finalmente essere al centro dell’attenzione. Come scriveva il professor Zanacchi nel libro già indicativo dal titolo, “Salvare l’omelia” il celebrante “ha la tentazione di parlare per immediata ispirazione confidando in debitamente nello Spirito Santo come surrogato della dovuta preparazione”.
Ma questo sarebbe già positivo, almeno nelle intenzioni: il cardinal Tomas Spidikik, molto più acutamente, diceva invece che “il motivo per cui la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato”. Proprio vero. Meglio di tutti, con il suo realismo scottante, si è espresso papa Francesco: parlando di omiletica e Ars celebrandi, raccomandò ai preti presenti di non cadere nella tentazione di voler essere “showman” sul pulpito, magari parlando “in modo sofisticato” o “abusando dei gesti”; nemmeno però i celebranti devono essere così “noiosi” da spingere le persone ad “andare fuori a fumare una sigaretta” durante l’omelia.
La decisione presa dal Vaticano, come annuncia l’Osservatore Romano, per andare incontro al problema lascia però un po’ dubbiosi: una app. Sì avete capito bene, si chiama Clerus-App ed è disponibile per ora solo su Google play store, preparata dalla congregazione per il Clero in collaborazione con la segreteria per la Comunicazione, Si legge sul quotidiano della Santa Sede: “destinata in primo luogo ai parroci e ai sacerdoti, ma anche a tutti quanti vogliono avere a disposizione settimanalmente un commento alla parola di Dio del giorno festivo”. Si potranno ascoltare alcuni suggerimenti da inserire nel testo, archiviare i commenti di omelie a cura del padre gesuita Marko Ivan Rupnik, teologo e artista, autore dei mosaici delle basiliche di Fatima e San Giovanni Rotondo. Succederà che adesso in tutte le chiese italiane ascolteremo la stessa omelia? Se è breve e semplice, benissimo. Ma la carica educativa della fede che contraddistingue ogni singolo sacerdote dove finirà, ammesso che ci sia ancora da qualche parte? Meglio tornare a papa Francesco che nella Evangelii gaudium scriveva: “L’omelia deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede”.